Il pacchetto Safe da 150 miliardi è prossimo al voto del Consiglio europeo, ma restano forti dubbi sul suo impatto effettivo. In un’intervista a Airpress, il senatore Enrico Borghi riflette sui limiti di un approccio tecnico privo di visione politica e sui rischi di un’Europa della Difesa frammentata. Tra cortocircuiti interni e sfide industriali, il dibattito si sposta sul terreno della credibilità strategica dell’Italia e della necessità di strumenti di finanziamento realmente comuni ed europei
La Difesa europea fa (piccoli) passi in avanti. Con l’imminente voto del Consiglio europeo di martedì sull’approvazione del pacchetto Safe da 150 miliardi di euro in prestiti garantiti dalla Commissione per supportare gli Stati membri nei loro sforzi di rafforzamento militare e industriale, il dibattito continua a imperniarsi su quale direzione (e con quali partner) prenderà l’Europa per il futuro della propria sicurezza. Airpress ne ha parlato con Enrico Borghi (Italia Viva), membro della Commissione Affari esteri e Difesa del Senato.
Senatore, il prossimo martedì il Consiglio europeo voterà le regole per l’utilizzo del fondo del pacchetto Safe. Parliamo di una parte considerevole del piano ReArm/Readiness 2030. Secondo lei questo strumento potrà soddisfare le esigenze delle difese europee?
Io ritengo che il pacchetto Safe, così come l’intero impianto del piano ReArm, rappresenti un approccio minimalista al tema della Difesa europea, mentre oggi serve altro. Serve un approccio più politico. Bisogna rilanciare l’obiettivo politico di una Difesa comune europea sostenuta da chiari strumenti finanziari europei: vale a dire gli Eurobond. Questo lo sostenevano anche De Gasperi e Einaudi negli anni 50, quando dicevano che una difesa comune non si sarebbe potuta sostenere senza una mutualizzazione del debito.
Mentre nel caso del pacchetto Safe parliamo di prestiti garantiti dalla Commissione?
Esatto. Un approccio tecnico e non politico. Di conseguenza, il rischio che Safe faccia la stessa fine del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità, ndr) è molto alto.
Recentemente il governo ha annunciato di aver raggiunto l’obiettivo del 2% del Pil investito nella Difesa. Cosa ne pensa?
Penso che stiamo assistendo a un gioco delle tre carte, dal momento che non siamo in presenza di un aumento delle spese, ma di una riallocazione contabile di spese che vengono già effettuate nell’ambito del bilancio dello Stato.
E cosa ci dice questa cosa?
Ci dice che lo spazio di iniziativa autonoma di bilancio è praticamente azzerato. Questo porta a galla il cortocircuito sovranista. Per molto tempo il ministro Crosetto è venuto in Parlamento a invocare la modifica del Patto di stabilità (vale a dire l’autorizzazione a fare ulteriore debito per finanziare la Difesa) come condizione essenziale per l’impegno dell’Italia. Poi, quando l’Europa ha introdotto questo meccanismo, il ministro Giorgetti si è immediatamente peritato di dire che l’Italia non ne farà uso. Mi pare che si tratti di un cortocircuito politico tutto interno della maggioranza.
E quindi?
E quindi la conseguenza di questo cortocircuito determina l’allontanamento dell’Italia dalle posizioni di vertice europee. Ad esempio, l’asse di Weimar — che comprende attualmente Parigi, Berlino, Varsavia e Londra — oggi crea una condizione di un’Europa della Difesa a due velocità, nella quale l’Italia rischia di restare indietro. Anche davanti a questo rischio, io ribadisco che è necessario creare strumenti di finanziamento europei.
Eppure, per come è stato presentato, il piano ReArm è incentrato sui singoli processi di riarmo nazionale…
Esatto, è per questo che abbiamo criticato Ursula von der Leyen. Non perché siamo contrari al piano di riarmo, ma perché noi non riteniamo che la base nazionale debba essere la base finanziaria esclusiva per supportarlo.
Perché?
Proprio per il rischio di creare un’Europa a due velocità. È evidente che ci sono Stati che, tramite il ricorso al debito, possono beneficiare di un boost incredibile; basti pensare alla Germania. Invece, per quei Paesi (come il nostro) che hanno già un alto debito pubblico, le difficoltà sarebbero maggiori.
Tornando al pacchetto Safe, cosa pensa dell’idea di un “buy european” rinforzato che potrebbe escludere le industrie extra-Ue (come Usa, UK e Norvegia) dall’accesso a questi finanziamenti?
Io andrei cauto e starei attento a dinamiche di natura sciovinista, sia perché le industrie americane e britanniche hanno dei range di innovazione molto elevati — e che quindi come tali possono servire in una logica di mutua collaborazione che includa anche la nostra filiera produttiva — sia perché se passasse questa linea (“buy european 100%”) ci ritroveremmo dei buchi di fornitura che comprometterebbero l’elemento qualitativo e quantitativo della nostra sicurezza. Penso che serva un approccio pragmatico e non ideologico, e in questo senso la riflessione dovrebbe essere condotta anche nel quadro dell’Alleanza Atlantica.