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Cosa pensano gli italiani quando si parla di cultura come settore economico

Se vogliamo che la cultura rappresenti davvero e per tutti quel segmento industriale e di ricchezza che a tutti gli effetti può diventare, non resta che investire in cultura e fare in modo che gli investimenti che vengono sostenuti poi generino davvero ricchezza. Nulla di più

La narrazione della cultura come strumento di sviluppo economico è molto diffusa, ormai, sui nostri media, nelle dichiarazioni dei nostri referenti e rappresentanti politici, nelle indicazioni di imprenditori e di personaggi pubblici. Anno dopo anno confermiamo il ruolo sempre più importante che i musei hanno per il nostro turismo, produciamo e stampiamo report che indicano quante persone siano andate a visitare un istituto di cultura, e ad ogni notizia positiva non facciamo altro che abusare di slang giornalistici dal tono iperbolico.

Poi arriva l’eurobarometro, che si occupa di sviluppare sondaggi periodici per conto della Commissione Europea. E succede che l’Eurobarometro decide di indagare, tra le tante aree della nostra società civile, quali siano i rapporti tra le persone della nostra Europa e la Cultura. Così si scopre, quando si guardano i risultati distinti per nazione, che rispetto alla media Ue gli italiani:

a) Conoscono meno persone che lavorano nella cultura

b) Sono meno inclini a considerare la cultura come una parte importante del sistema di welfare e di sviluppo economico;

c) Ritengono che gli artisti ricevano, generalmente, una remunerazione corretta e appropriata per il proprio lavoro.

Pur avendo ben chiare quali siano le condizioni reali del nostro Paese in termini di sviluppo economico della cultura, è opportuno ricordare che in presenza di due narrazioni così distanti è necessario in qualche modo identificare una linea che permetta di incrementare i confronti tra la parte “culturale” del nostro Paese e il resto d’Italia. Perché è piuttosto evidente che queste due “realtà” dialoghino poco tra loro. Si prenda ad esempio l’idea diffusa, in Italia più che in Europa, che gli artisti vengano equamente retribuiti: si tratta di una condizione che è sicuramente vera per le star dello spettacolo, e anche per quei pochi professionisti che hanno raggiunto un adeguato livello di notorietà.

Escluse tali eccezioni, però, i dati occupazionali legati alla categoria degli autori e degli artisti trasferiscono un’Italia diversa: pochi occupati a tempo indeterminato, incremento delle partite Iva (dato che nel nostro Paese è più spesso sinonimo di precariato che di ricchezza), una scarsa rappresentatività in termini di Ccnl che si riflette o che riflette una scarsa rappresentatività collettiva all’interno della vita democratica del nostro Paese. La maggiore diffusione di questa convinzione, tuttavia, può essere anche posta in relazione ad un altro dei risultati emersi: la constatazione che, tra gli intervistati, ci fossero meno persone che negli altri Paesi direttamente o indirettamente coinvolte nel mercato culturale.

Anche questo dato, in realtà, solleva un punto di domanda: tutti i report legati al settore culturale, da anni, non fanno altro che dichiarare il trend di crescita di occupati nel settore. L’ultimo rapporto Symbola dichiarava che il 6% circa dei lavoratori fosse coinvolto in attività culturali e creative. Sebbene non sia statisticamente impossibile, risulta tuttavia peculiare che a fronte di un così alto tasso di persone coinvolte in un settore economico si siano registrati dei risultati al di sotto della media europea.

Presi congiuntamente questi due risultati forniscono una chiave interpretativa per il terzo. Detto in altri termini, da una minore conoscenza, diretta e indiretta, del mercato culturale, e da una conseguente visione del mercato culturale che, a giudicare dalle risposte, è quella che emerge dalla stampa generalista e dai casi più emblematici è naturale che le persone tendano a sottostimare il valore che il mercato culturale ha per il welfare e per lo sviluppo economico. Ciò detto, però, il dato su cui dobbiamo tutti riflettere è legato al fatto che gli italiani danno al mercato culturale una importanza minore di quanto si faccia in media nel resto dell’Unione Europea.

Condizione che, in un Paese come il nostro, richiede delle risposte importanti: risposte che non sono soltanto mediatiche, ma fattuali. È il segno che tutto il lavoro condotto negli ultimi anni in materia di valorizzazione economica delle industrie culturali non ha ancora generato dei ritorni reali sull’intera popolazione. I report, le ricerche, le dichiarazioni ufficiali, i casi studio, le azioni emblematiche, le capitali della cultura, le 18App e poi le carte del merito, devono quindi essere reinterpretate in una logica di più ampio periodo: quanto fatto sino ad oggi ha avuto un impatto sugli addetti al settore. Ora dobbiamo convincere tutti gli altri cittadini.

C’è solo un modo per farlo: far crescere le Icc, per numero e soprattutto per fatturato. Fare in modo che si incrementino i settori culturali e creativi in senso stretto. Che gli occupati delle Icc abbiano contratti adatti non solo alla mansione ma anche al nostro tempo. E che ci sia una produzione di ricchezza reale con ricadute reali sulle famiglie. Se vogliamo che la cultura rappresenti davvero e per tutti quel segmento industriale e di ricchezza che a tutti gli effetti può diventare, non resta che investire in cultura e fare in modo che gli investimenti che vengono sostenuti poi generino davvero ricchezza. Nulla di più.


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