Oggi la questione-Cina è quella intorno alla quale ruota gran parte del confronto conclavario, cioè una scelta da cui dipende gran parte del futuro della Chiesa, che nell’enorme difficoltà del rapporto con Pechino, non può che vedere la sfida per il suo futuro di Chiesa globale. La riflessione di Riccardo Cristiano
Il Conclave è entrato certamente nella sua prima fase calda. È emerso un candidato forte? Questo produrrà il famoso effetto di “trascinamento”? Se questo produrrà nelle prossime ore il nuovo vescovo di Roma o no nessuna persona può dirlo. Resta il fatto che c’è un episodio relativo alle relazioni tra Vaticano e Stati Uniti d’America, ai tempi della prima amministrazione Trump, che non può che tornare alla mente. Si tratta della visita in Vaticano del segretario di Stato del tempo, Mike Pompeo, a fine settembre 2020. Quella visita, che non produsse l’ incontro con papa Francesco, fu preceduta da un sorprendente articolo di Pompeo stesso, per il quale se il Vaticano avesse confermato il suo accordo provvisorio (sui criteri di nomina dei vescovi) con Pechino avrebbe perso la sua autorità morale: “Due anni fa, la Santa Sede ha raggiunto un accordo con il Partito comunista cinese, sperando di aiutare i cattolici cinesi. Ma l’abuso del Pcc sui fedeli è solo peggiorato. Il Vaticano metterebbe a rischio la sua autorità morale, se rinnovasse l’accordo”. L’accordo è stato puntualmente rinnovato.
I fatti odierni, molto tempo dopo, hanno detto che il Vaticano quell’autorità morale globale non l’abbia persa, mentre le politiche degli Stati Uniti hanno un “leggero” calo di consenso e popolarità nel mondo. Può essere che ci si sbagli, ma anche negli Stati Uniti i sondaggi sembrano dire che l’impressione anche “in patria” sia questa.
Ma c’è un’altra rilevazione da fare. Quel mancato incontro del papa con il segretario di Stato americano, che fu ricevuto, estendendo in suo favore il protocollo, dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, aumentò il consenso e la vicinanza del Global South nei confronti della Santa Sede. Un dato che avrebbe dovuto costituire un campanello d’allarme per la diplomazia americana. La democrazia, di cui gli Stati Uniti vanno fieri, si fonda sul consenso, non sul dissenso, anche del mondo.
No si intende qui entrare sulla contenutissima reciprocità cinese, cioè su quanto poco Pechino abbia corrisposto alla politica delle porte aperte del duo Bergoglio-Parolin, ma sulla consistenza delle alternative: se oggi si vedono emergere pulsioni che gradirebbero chiese patriottiche in tanti Paesi del mondo, incrinare la logica della Chiesa patriottica in Cina è stato un bene, soprattutto per la Chiesa. Non ricordo un altro precedente che nel Paese del “figlio del cielo”, come si faceva chiamare l’imperatore cinese e quale si considera il segretario generale del Partito Comunista Cinese, abbia aperto una spiraglio di pluralismo sotto quel cielo. Giovanni Paolo II, il papa venuto dall’est, nel suo primo discorso al corpo diplomatico aveva sollecitato il ritorno degli ambasciatori del blocco sovietico in Vaticano. Non a casa la ricerca dell’accordo fu avviato proprio da Giovanni Paolo II e proseguita da Benedetto XVI.
Così ritengo che oggi la questione-Cina sia quella intorno alla quale ruota gran parte del confronto conclavario, cioè una scelta da cui dipende gran parte del futuro della Chiesa, che nell’enorme difficoltà del rapporto con questa Pechino non può che vedere la sfida per il suo futuro di Chiesa globale.
La grande sfida è in gran parte qui. Non che altre voci o capitoli contino di meno, ma questa è quella attorno alla quale sembra ruotare molto: Chiesa in uscita, Chiesa globale, tutto sembra legato al delicatissimo e fragilissimo filo del dialogo con il difficilissimo interlocutore cinese. E forse il fotomontaggio di Trump vestito da papa voleva rammentare o sottolineare la sua priorità.