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Dai semiconduttori alla difesa, occhio in Ue a non cadere nella trappola autarchica

Con l’apertura a Southampton del primo impianto europeo per la produzione industriale di semiconduttori, il Regno Unito si inserisce in un nodo cruciale per la sicurezza tecnologica e la difesa. La mossa arriva mentre Londra e Bruxelles tentano un riavvicinamento piano politico e strategico, ma le regole europee sui finanziamenti per la difesa rischiano di penalizzare partner strategici

Il Regno Unito ha inaugurato a Southampton il primo impianto europeo per la produzione di semiconduttori su scala industriale basati su fotonica del silicio. La notizia arriva nel pieno del riavvicinamento tra Londra e Bruxelles (che dovrebbe essere sancito dalla firma di un nuovo patto sulla difesa il prossimo 19 maggio) e suggerisce — sul piano industriale prima ancora che politico — una domanda non banale: potrà (o dovrà) il Regno Unito diventare parte integrante della futura autonomia strategica europea?

Il tema è tutt’altro che teorico. La capacità di produrre semiconduttori in Europa è oggi al centro delle politiche di sicurezza dell’Unione. Radar, comunicazioni sicure, sensoristica distribuita e intelligenza artificiale applicata alla difesa: tutto poggia su microchip sempre più sofisticati, difficili da reperire ma critici per sostenere la produzione di armamenti e componentistica. In questo contesto, la nuova facility britannica assume un significato che va oltre il piano tecnologico e si colloca all’interno di una competizione strategica più ampia, in cui resilienza e interoperabilità sono diventate priorità condivise a livello transatlantico.

Eppure, le regole del gioco non sono sempre allineate agli interessi di cooperazione. Ad esempio, il pacchetto Safe, il maxi fondo europeo da 150 miliardi di euro dedicato alla difesa, prevede che i prodotti finanziabili debbano essere realizzati per almeno il 65% all’interno dell’Ue. Una clausola pensata per sostenere la sovranità industriale europea, ma che rischia di escludere proprio quei partner — come il Regno Unito — che rappresentano asset strategici difficili da sostituire.

Non è solo una questione di quote di mercato. Bae Systems, il maggiore player europeo (per scala e portafoglio) nel settore difesa, rimane coinvolta in gran parte dei programmi più ambiziosi per la difesa europea del futuro. Dal Gcap, il caccia di sesta generazione prodotto con Italia e Giappone, all’integrazione missilistica tramite il consorzio Mbda, passando per numerosi progetti in ambito navale e terrestre, la realtà britannica continua a essere un attore chiave per l’ecosistema continentale. Tagliare questi legami significherebbe indebolire l’intera filiera, anche nei segmenti tecnologici più sensibili — tra cui, appunto, quello dei semiconduttori.

In questo scenario, l’Italia può giocare un ruolo. Roma mantiene una cooperazione solida con Londra, sia a livello industriale che politico, e potrebbe farsi promotrice di un approccio meno rigido. Non una rinuncia all’autonomia strategica, ma un suo ripensamento in chiave più pragmatica e multilivello. Perché senza i partner giusti, l’Europa rischia di fare l’autarchia nel momento sbagliato.


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