All’orizzonte c’è un futuro che vedrà il potere esprimersi in tutte le sue declinazioni – hard, soft, sharp – ma con effetti differenti rispetto al contesto. Il potere all’interno di una democrazia si manifesta in maniera diversa rispetto alle autocrazie, poiché ha dei limiti. Nei Paesi che stanno regredendo alla condizione di non-democrazie sono proprio le garanzie nell’esercizio dei poteri a essere sotto attacco. L’analisi di Antonio Campati, ricercatore di Filosofia politica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Poco più di dieci anni fa Moisés Naím sosteneva che il potere era in declino, perché non garantiva più i privilegi di un tempo, era diventato più facile da conquistare ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere. Tuttavia, riteneva che in diversi ambiti della vita umana – non solo nel campo politico – si assisteva al consolidarsi di molti micropoteri, che non si presentavano con le vesti soverchianti del potere nudo e crudo, ma che comunque riuscivano a ostacolare le decisioni dei grandi protagonisti della vita dei Paesi e delle istituzioni (La fine del potere, Mondadori, 2013).
Gli ultimi fatti internazionali – che hanno addirittura visto l’utilizzo della forza militare – sembrerebbero indebolire questa tesi. Infatti, chi decide se fare una guerra sono gli Stati, i leader politici, i vertici e non certamente i piccoli attori, i cui veti talvolta non sono più determinanti come un tempo. In realtà, una lettura del genere apparirebbe piuttosto frettolosa. Quei micropoteri analizzati da Naím sono ancora ben presenti nelle nostre società e talvolta determinano davvero la riuscita o il fallimento di una decisione pubblica, nel bene e nel male. Il dato da rilevare è che l’inversione di tendenza che ci colpisce oggi è in verità una conseguenza della legge che regola le metamorfosi del potere: esso, infatti, si manifesta in maniera più o meno evidente a seconda delle circostanze e soprattutto in base alle predisposizioni di chi lo detiene.
Una delle critiche che possiamo rivolgere a noi stessi è quella di aver smesso di pensare il potere, cioè di non averne analizzato in profondità i mutamenti, perché ormai convinti che la sua parcellizzazione fosse un’inevitabile conseguenza di tendenze inarrestabili, a partire dalla diffusione capillare delle tecnologie informatiche. Si pensi al potere democratico.
Talvolta ci si è illusi del fatto che la pressione esercitata da una miriade di utenti attivi sulle tastiere di Pc e smartphone sarebbe stata determinante per scalfire una volta per tutte il potere monolitico, soprattutto quello concentrato nella figura di un leader. Si pensava, in sostanza, che il desiderio di riappropriarsi di una fetta, più o meno grande, di sovranità sarebbe stata così dirompente da vincolare le scelte del vertice istituzionale. In effetti, in alcuni casi ciò è avvenuto. Ma siamo ben lontani dal pensare che la dimensione orizzontale del potere abbia avuto la meglio su quella verticale. Volendo giocare con le parole, è fuori di dubbio che il potere concentrato nelle mani di un leader – e del suo inner circle – eserciti ancora la sua potenza. Quello che si staglia all’orizzonte è allora un futuro che vedrà il potere esprimersi in tutte le sue declinazioni – in maniera hard, soft, sharp – ma naturalmente con effetti differenti rispetto al contesto nel quale verrà esercitato. È ovvio che il potere all’interno di una democrazia si manifesta in maniera diversa rispetto alle autocrazie o a quelle che ormai chiamiamo democrature.
Nelle democrazie il potere ha innanzitutto dei limiti: non può essere assoluto, deve essere controllato attraverso i meccanismi istituzionali e sorvegliato dalle cittadine e dai cittadini. Non è una banalità ricordarlo, perché nei Paesi che stanno regredendo alla condizione di non-democrazie sono proprio le garanzie nell’esercizio dei poteri a essere sotto attacco, tra l’altro in maniera non sempre percepibile. Un ulteriore elemento da considerare è legato al fatto che, anche nelle democrazie, il potere è legittimamente concentrato nelle mani di pochi. Infatti i sistemi rappresentativi, attraverso il voto, determinano la distinzione tra governanti e governati, laddove i primi detengono una fetta di potere più consistente dei secondi. Sappiamo quanto una simile separazione sia costantemente sotto accusa e, infatti, sono ormai evidenti i segnali che suggeriscono un nuovo equilibrio capace di tenere insieme la legittimità dei pochi a comandare e la necessità dei molti a controllare il loro operato.
In altre parole, occorre superare la semplicistica distinzione tra élite e popolo e provare a ridisegnare un sistema della rappresentanza capace di mantenere alto il suo tasso di inclusività, come ricorda l’articolo 67 della Costituzione italiana che obbliga ogni membro del Parlamento a rappresentare l’intera nazione. L’importante è rispettare una delle principali promesse dei sistemi liberal-democratici, secondo la quale accanto ai pochi che hanno il potere, ci sono molti altri che aspirano a ottenerlo: è il cuore della dinamica democratica che si concretizza anche attraverso forme non istituzionali di partecipazione che sfidano il potere costituito. Sono modalità altrettanto importanti, organizzate negli ultimi tempi soprattutto tramite piattaforme web, sempre più cruciali nel determinare il dibattito pubblico e forgiare le idee, gli atteggiamenti e quindi le opinioni di voto. Ma le insidie del potere si nascondono persino in queste modalità di attivismo all’apparenza totalmente autentiche. I proprietari di tali piattaforme sono una élite mondiale influente e ormai abbastanza riconoscibile, nelle cui mani ci sono milioni di informazioni sensibili, che possono essere utilizzate persino con scopi non del tutto chiari, per esempio a servizio di un Paese in una guerra cyber contro un altro. Sono le nuove forme di espressione del potere, talvolta colpevolmente trascurate, che invece stanno determinando lo scenario internazionale e le relazioni tra gli Stati.
In conclusione, possiamo avere la ragionevole certezza che il potere non scomparirà, ma continuerà a essere plasmato in molti modi, alcuni forse non ancora neppure immaginati. Sulla base di tale consapevolezza, non dobbiamo dimenticare una indicazione che ci giunge da Romano Guardini quando, nel lontano 1951, scriveva: “L’epoca futura in definitiva non dovrà affrontare il tema dell’aumento del potere, anche se esso aumenta continuamente e a ritmo sempre più accelerato, ma quello del suo dominio”. Pensando al potere che, da ultimo, è in grado di emanare l’intelligenza artificiale, non possiamo non preoccuparci di costruire metodi che in qualche modo lo possano arginare. L’obiettivo non è certamente porre ostacoli alla libertà, ma preservare ciò che lo stesso Guardini individuava come il senso centrale della nostra epoca: “Ordinare il potere in modo che l’uomo, facendone uso, possa rimanere uomo”.
Formiche 213