Rinunciare alla difesa significa rinunciare alla minima sicurezza sociale e vitale. Quello che si vede però è che non si affronta il problema. La cosa lascia uno spazio alla premier Giorgia Meloni di restare al potere, ma in queste condizioni difficili anche la sua azione di governo è intrappolata. Non riesce a fare quello di cui l’Italia ha bisogno e quindi tutto il Paese rischia di essere schiacciato. L’analisi di Francesco Sisci
L’opposizione al riarmo in Italia è la resa del Paese alla sua morte politica, sociale e reale. L’Italia non vuole spendere per la difesa perché forse inconsciamente non ha niente da difendere – si sente un malato terminale prossimo alla morte. Oltre metà della nazione non vota, le imprese evadono all’estero o le tasse, i giovani pure. Il ceto politico è largamente autoreferenziale, e nessuno vuole più figli. Serve un miracolo, ma chi lo fa? Oppure ci sarà un’invasione. Bisogna solo capire da che parte arriverà.
Oggi più che mai dopo le elezioni tedesche c’è una concordanza tra richieste all’Italia di Stati Uniti ed Europa (c’è anche il Regno Unito). Entrambi chiedono un maggiore impegno della difesa, il che non significa necessariamente mandare truppe in Ucraina ma significa aumentare il bilancio delle forze armate.
Gli Usa chiedono il 5% del Pil in difesa. L’Italia, non si sa davvero o attraverso surrettizi meccanismi contabili, dovrebbe arrivare al 2% alla fine dell’anno. In ogni caso resta molto lontano dal 5%. Questa insufficienza diventa più significativa perché la Polonia, entrata nel quartetto di guida dell’Europa, ha già raggiunto il 5% e sta andando verso il 6%.
L’obiettivo significa che bisogna attrezzarsi non solo a consumare di più nel militare ma anche ad avere un’economia sana perché altrimenti la nuova spesa rischia di fare crollare il Paese. Per avere una economia sana bisogna applicare le riforme liberali richieste da tempo dall’Unione Europea – sburocratizzazione, liberalizzazione, meno consorterie, meno privilegi. Attualmente una serie di consorterie intrappolano la crescita economica e perciò contribuiscono in generale all’arretramento diplomatico italiano.
Certamente la difesa è un tema critico perché gli italiani sono pacifici e pacifisti per ragioni legittime. Ma c’è anche ragione di pensare che forze putiniane fomentino e soffiano sul fuoco pacifista.
Dall’altro lato c’è ancora di più. I partiti possono pensare che non opponendosi all’ondata pacifista del Paese possono ottenere più voti. Se si oppongono perdono consenso. Però c’è un problema più generale.
Oltre il 50% degli italiani non vota. Cioè al di là dei seggi raccolti c’è un Parlamento che nel suo complesso è delegittimato perché non riesce a parlare con il Paese.
Bisognerebbe affrontare di petto con senso di verità l’urgenza del Paese ad avere un’economia più sana e una difesa più sana. A nessuno piace un poliziotto che invade la casa, però tutti siamo ben contenti che il poliziotto protegga la porta di casa.
Rinunciare alla difesa significa rinunciare alla minima sicurezza sociale e vitale. Quindi, probabilmente, se il discorso fosse affrontato seriamente con senso di realismo, forse gli italiani comprenderebbero la delicatezza della situazione.
Quello che si vede però è che non si affronta il problema. La cosa lascia uno spazio alla premier Giorgia Meloni di restare al potere che va benissimo. Ma in queste condizioni difficili anche la sua azione di governo è intrappolata. Non riesce a fare quello di cui l’Italia ha bisogno e quindi tutto il Paese rischia di essere schiacciato.
Inoltre, il Paese resta diplomaticamente fuori dai fori principali perché essi sono la Ue e la Nato che vogliono una maggiore difesa. Il che vuol dire che l’Italia restringe il suo campo di azione a un “minimo sindacale” dove Meloni è l’unico interlocutore internazionale. Lei non si muove per non smuovere i suoi consensi, però non affronta di petto le questioni politiche e quindi lentamente ma inesorabilmente l’Italia va a indebolirsi, a sgonfiarsi, a diventare sempre più debole.
Dovrebbe essere preoccupante per tutti, perché poi alla fine un indebolimento dell’Italia così importante, espone l’Italia alle prevaricazioni di tutti, a cominciare da predoni libici che da Tripoli, domani potrebbero passare a Palermo e poi risalire la penisola.
Che fare
Cosa si potrebbe fare in una società come la nostra per cambiare la situazione?
In realtà i grandi punti di snodo delle decisioni politiche partono dai capitalisti cioè dai grandi imprenditori. Furono i grandi imprenditori a finanziare Mussolini nella sua fase rivoluzionaria sostenuto poi anche dal re che non riusciva più a gestire la politica.
Poi con il capitalismo sconfitto dalla Seconda guerra mondiale, perché i capitalisti si erano schierati con il fascismo, l’Italia si ricreò su altre basi. Da una parte c’erano alcune imprese statali ereditate dal fascismo intorno all’Iri, e poi il gruppo che invece faceva riferimento ad imprese private sotto la cura di Mediobanca. Questi rimisero insieme il sistema economico, con l’appoggio americano, inglese e francese. Ma allora era un periodo diverso in cui l’Italia era stata occupata nei fatti.
Oggi c’è una realtà diversa, forse più inquietante. Molte grandi imprese sono emigrate dall’Italia, cioè pagano le tasse in Olanda, in Lussemburgo o altrove. Quindi si sono esentate della politica italiana e hanno dei punti di riferimento esteri. Le imprese che sono in Italia sono statali e direttamente o indirettamente; quindi, devono fare i conti con il governo. Spesso hanno rapporti molto intimi con il governo e devono averli perché il governo con piccoli cambiamenti (e lo si vede nel risiko bancario attuale) può spostare interessi da una parte o dall’altra.
Poi le piccole e medie imprese sono troppo piccole per affrontare di petto il governo. Cioè l’unica vera politica che adottano è quella di cercare di evitare di pagare le tasse in tutti i modi.
La classe operaia non c’è più. Le grandi imprese non sono più neanche in Confindustria. Cioè vediamo che gli imprenditori alla guida di Confindustria sono piccoli o piccolissimi, quindi non importanti. Essi diventano importanti nel momento in cui guidano Confindustria ma viceversa senza Confindustria non sarebbero importanti.
È molto diverso dalla vecchia Confindustria quando c’erano le grandi aziende che pagavano un prezzo sociale, Agnelli per esempio, per diventare presidente di Confindustria. Cioè perdevano tempo ed esigenze proprie e le donavano al Paese.
Quindi c’è una realtà in cui l’Italia si è già svuotata delle sue forze vitali. I grandi imprenditori sono andati all’estero, i piccoli imprenditori evadono le tasse per quello che possono, le forze sociali (i sindacati) rappresentano sé stessi o gli impiegati delle aziende pubbliche e statali. C’è quindi solo lo Stato e chi cerca di non averci a che fare, perché emigra o evade le responsabilità sociali. I giovani capaci emigrano all’estero. Ci sono forse due milioni di italiani fuori. Non sono i braccianti di una volta. Sono spesso il meglio del Paese.
Quindi c’è un ceto politico privato di una serie di contraltari, allora per chi parlano? Cioè il ceto politico è autoreferenziale, e un pezzo importante del Paese, forse il più importante, ha disertato.
In questo contesto è difficile pensare da dove si può ricominciare perché il Paese si è svuotato. Siamo tutti qui ma siamo tutti ospiti e tutti abbiamo piccole o grandi convenienze a mantenere la situazione per quella che è. Non abbiamo altro motivo che una spinta ideale ed emozionale nei confronti del Paese a cambiare le cose. Ma non c’è nessuna urgenza oggettiva e senza urgenza oggettiva la spinta emozionale di qualcuno non porta avanti molti. Perché poi alla fine tutti sono in una situazione abbastanza confortevole. Non ci sono giovani, e le rivoluzioni si fanno con i giovani. Gli unici giovani veri sono immigrati e sono in una situazione di semi legalità, cioè pagano le tasse ma non votano.
Quindi è tutto molto bizzarro. Chi dovrebbe fare la rivoluzione, i pensionati? E quindi si vede che in realtà, salvo un miracolo, l’Italia si va a spegnere. Il tasso di crescita demografica discendente è proprio la prova di questo inesorabile spegnimento del Paese.
Il Vaticano che era stato uno dei grandi motori della opposizione coscienziosa al sistema piemontese prima e poi autore del grande rilancio dell’Italia nel dopoguerra oggi, giustamente, pensa al mondo, non pensa all’Italia.
Ci sono 1,4 miliardi di cattolici. Il sito Come diventare cattolici negli ultimi mesi ha registrato un aumento del 380% dei visitatori. C’è un’esplosione di interesse per il cattolicesimo con la morte di Papa Francesco e l’elezione di Papa Leone XIV.
Quindi la realtà visibile è che la Chiesa cresce e crescerà. Leone XIV ha iniziato molto bene e sta attirando grandissima attenzione dell’America e del mondo. L’Italia sta diventando una specie di cintura di sicurezza intorno al Vaticano, il posto dove, diversamente dall’Italia, le cose si decidono e si pensano seriamente. A meno di un miracolo, di un colpo di reni di una qualche entità che sente il bisogno e l’interesse di riprendere il Paese e metterlo su un binario più sano, si navigherà a vista. Come orizzonte è poi utile avere a mente qualche dato.
I numeri del collasso
In Italia, nel 2023, i giovani tra i 18 e i 34 anni sono circa 10,2 milioni, oltre tre milioni in meno rispetto al 2002, un calo del 23,2%.
Se consideriamo la fascia più ampia dai 18 ai 35 anni, sommando i dati del 2022:
• 18-24 anni: circa 4,1 milioni;
• 25-34 anni: circa 6,2 milioni;
• 35 anni (stimato intorno a 330-660 mila per anno, ma considerando i dati disponibili): circa 660 mila.
Quindi, approssimativamente, gli italiani tra i 18 e i 35 anni sono intorno a 11 milioni.
Questo dato riflette una tendenza di forte diminuzione della popolazione giovane in Italia negli ultimi due decenni. L’Italia continua a perdere giovani, in soli 20 anni se ne contano circa un quarto in meno. Tutto questo mentre la popolazione italiana è aumentata del 3% nello stesso arco temporale.
L’Italia è il Paese Ue con la più bassa incidenza di 18-34enni sulla popolazione (nel 2021,17,5%; media Ue 19,6%).
Dai dati che emergono dal rapporto Istat presentato, “I giovani del Mezzogiorno”, emerge che il Sud presenta una perdita netta di giovani nonostante ce ne siano di più rispetto al nord: la quota di chi si trova tra i 18 e i 34 anni è maggiore al Meridione (18,6%) rispetto al Centro-nord (16,9%), ma la flessione è molto severa (-28% dal 2002). Al Sud il 71,5% dei giovani vive in famiglia, il 49,4% nella Ue.
I giovani del Mezzogiorno hanno un percorso più “lungo e complicato” verso l’età adulta
Si dilatano notevolmente i tempi di uscita dalla casa dei genitori, di formazione di una famiglia propria, della prima procreazione. Nel Mezzogiorno il 71,5% dei 18-34enni nel 2022 vive in famiglia (64,3% nel Nord Italia; 49,4% nell’Ue a 27), con un forte aumento rispetto al 2001 (62,2%).
Sempre più alto il tasso di disoccupazione dei giovani al Sud, 23,6% contro 9,1% centro nord.
La carenza di opportunità lavorative stabili e di buona qualità nel Mezzogiorno non è una novità, ma la situazione fra i “millennials” peggiora. Il tasso di attività (20-34 anni), già basso nella generazione precedente (60,3%) si riduce ulteriormente (54,4%), come il tasso di occupazione (41,6%, dal 45,3%), mentre resta molto elevato quello di disoccupazione (23,6%; 9,1% nel Centro-nord).
Le Regioni caratterizzate da elevata disoccupazione e debole sistema produttivo presentano un accentuato impoverimento demografico di 18-34enni (dal 2002 a 2022: Sardegna: -39,8%; Calabria: – 32,2%), la maggiore estensione delle transizioni familiari (30-39 anni che vivono in famiglia: Sardegna 37,8%; Campania 35,1%; Calabria 34,6%), un’alta consistenza di Neet (Calabria 35,5%, Campania 34,7%, Sicilia 33,8%).
La crescente indeterminatezza della “transizione lavorativa” – osserva l’Istituto di statistica – influisce negativamente sulla qualità della vita dei giovani meridionali: oltre un giovane su due (51,5%) è insoddisfatto della situazione economica (40,7% nel Centro-nord), e un terzo la considera peggiorata (35,6%). Oltre un giovane meridionale su cinque (21,8%; 15% nel Centro-nord) si dice insicuro verso il proprio futuro. L’insicurezza aumenta nelle regioni con basso Pil pro-capite e alta disoccupazione: è minima in Piemonte (12,3%) e Veneto (14,9%), massima in Sicilia (27,9%), Calabria (25,1), Sardegna (22%) e Puglia (21,6%).
Sempre più “inverno demografico”: il primo figlio si fa a 32,4 anni
L’incerta transizione verso l’età adulta è un fenomeno attivo fin dai “baby-boomers” (nati fra il 1956-’65), ma che ha subito un’accelerazione a partire dai cosiddetti “millennials” (nati fra il 1981-‘95).
La propensione alla nuzialità e alla procreazione si riduce. Nel 2021, l’età media al (primo) matrimonio degli italiani è di circa 36 anni per lo sposo (32 nel 2004) e 33 per la sposa (29 nel 2004); quella della prima procreazione per le donne è in continuo aumento (32,4 anni contro 30,5 nel 2001). Ciò rischia di interferire con il ciclo biologico della fertilità e di alimentare l’“inverno demografico”.
Millennials al Sud molto più istruiti del passato.
Cresce immatricolazione universitari meridionali +15,6 punti
Nelle nuove generazioni di giovani meridionali si rileva una progressiva estensione dei percorsi di studio. I cosiddetti “millennials” sono di gran lunga più istruiti, soprattutto per la visibile riduzione della componente con titoli inferiori al diploma (24,4%) ormai superata da quella terziaria (27,8%).
Negli ultimi anni – rileva l’Istituto di statistica – è aumentata la propensione agli studi universitari, soprattutto nel Mezzogiorno: qui nell’anno scolastico 2021-22 si registrano 58 immatricolati per 100 residenti con 19 anni (56 nel Centro-nord); 47 iscritti ogni 100 19-25enni (41 nel Centro-nord); 22 laureati (anno solare 2022; I e II ciclo) ogni 100 23-25enni. Le immatricolazioni aumentano soprattutto nelle Regioni con alta disoccupazione e basso Pil pro-capite (fra il 2010 e il 2022: Sicilia +15,6 punti; Sardegna +13,6; Calabria+10,9; di contro: Lazio +8,4; Lombardia +5).
I percorsi universitari dei meridionali sono spesso più lenti e caratterizzati da una significativa “emigrazione studentesca”, sia all’iscrizione (il 28,5% dei meridionali si iscrive in atenei del Centro-nord), sia alla laurea (39,8% in atenei del Centro-nord), sia nel post-laurea (dopo 5 anni solo il 51% lavora nel Mezzogiorno). È un paradosso, ma nel medio-lungo periodo – osserva l’Istat – ciò potrebbe alimentare una deprivazione ulteriore di capitale umano con competenze avanzate, indispensabile per il Mezzogiorno.