Nel suo discorso a Riad, Donald Trump ha segnato una svolta nella politica americana in Medio Oriente, rifiutando l’idealismo liberal e ogni pretesa di ingerenza. Ha lodato l’autonomia dei leader locali e promesso un approccio pragmatico e selettivo agli interventi. Come osserva Kelly Petillo (Ecfr), si tratta di un realismo adattivo che ridefinisce l’influenza americana nella regione
Nel corso di un intervento a Riad che lo stesso vice capo di gabinetto della Casa Bianca Taylor Budowich ha definito “tremendamente consequenziale”, il presidente statunitense Donald Trump ha tracciato una rottura netta con decenni di politica estera americana in Medio Oriente. In un discorso pronunciato all’Investment Forum saudita, Trump ha ribadito la centralità di un approccio “realista” e post-ideologico, respingendo quella che ha definito la tradizione americana delle “prediche” su come altri Paesi debbano vivere o governarsi. “Alla fine, i cosiddetti ‘costruttori di nazioni’ hanno distrutto più nazioni di quante ne abbiano costruite”, ha dichiarato, con un tono polemico che prende di mira tanto i neoconservatori quanto l’internazionalismo progressista.
Il messaggio, sintetizzato efficacemente dal corrispondente di Axios Barak Ravid, è semplice: finché sei dalla mia parte, puoi fare ciò che vuoi a casa tua. È un manifesto di non-ingerenza selettiva, che fa leva su una narrativa di disillusione rispetto agli esiti delle grandi avventure occidentali in Afghanistan, Iraq e oltre. Il discorso, ampiamente riportato sulla stampa americana – con titoli come “No More Lectures on How to Live” (New York Times) e “Trump Remakes U.S. Policy in Mideast” (Washington Post) – segna un cambiamento profondo rispetto all’approccio liberal-internazionalista degli anni dell’amministrazione Obama e Bush.
Trump ha elogiato una “nuova generazione di leader” nel Medio Oriente che, a suo dire, stanno superando i “conflitti antichi e le divisioni stanche del passato”, spingendo la regione verso un futuro definito dal commercio e dallo sviluppo, non dal caos. Ha poi attribuito i successi visibili in città come Riad e Abu Dhabi non a interventi occidentali o a programmi di democratizzazione, ma alla volontà e alle capacità dei popoli e dei governi locali. “I miracoli scintillanti di Riad e Abu Dhabi,” ha detto, “non sono stati creati dai cosiddetti nation-builders, né da neocon né da ong liberali. Sono frutto della gente del posto”.
La visione presentata da Trump segna una frattura non solo con la dottrina Bush, centrata sulla diffusione globale della democrazia, ma anche con l’approccio dialogante di Barack Obama, che nel suo discorso del 2009 al Cairo cercò un “nuovo inizio” nei rapporti tra Stati Uniti e mondo musulmano. Ancora più marcato è il contrasto con Joe Biden, che da candidato aveva definito l’Arabia Saudita uno “Stato paria” e, da presidente, ha autorizzato la pubblicazione di un report della Cia che attribuisce la responsabilità dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi al principe ereditario Mohammed bin Salman.
Nel suo discorso, Trump ha anche rivendicato una nuova prassi militare: interventi rapidi, obiettivi circoscritti, nessun impegno indefinito. Lo ha fatto menzionando l’attacco ai ribelli Houthi in Yemen, interrotto dopo aver “ottenuto ciò per cui siamo venuti”. È un paradigma che guarda più all’efficienza che alla trasformazione sociale dei teatri di crisi, coerente con l’idea di disimpegno strategico selettivo che Trump ha promosso fin dal suo primo mandato.
Il discorso di Riad non è stato solo una dichiarazione d’intenti, ma anche una risposta alle critiche passate e una mano tesa ai partner del Golfo: un invito ad allinearsi sul piano geopolitico, senza condizionamenti ideologici. Un messaggio che sarà letto con favore a Riad e Abu Dhabi, ma che solleva interrogativi tra gli alleati europei e tra gli attori regionali esclusi da questa nuova narrazione.
“La parte del discorso di Riad in cui Trump ha contestualizzato il Medio Oriente come un’opportunità commerciale soprattutto è estremamente importante”, commenta Kelly Petillo, esperta di Golfo dell’Ecfr di Londra. “Questo perché si crea un punto di rottura con il passato, quando l’America guardava alla regione come un luogo di conflitto e di caos, e dunque segna un nuovo corso di come gli Stati Uniti stanno interpretando il ruolo internazionale della regione”.
Tuttavia, Petillo fa notare che Trump guarda all’area in “modo molto stretto”, perché “si concentra solo sul Golfo, perché è lì il centro delle opportunità, anche se però stiamo vedendo che nel contatto con la nuova leadership siriana e nelle sensibilità sul fermare la crisi umanitaria a Gaza, ricorda di non abbandonare o dimenticare totalmente altre situazioni importanti di criticità”. Qui si nota anche la capacità che questi Paesi hanno costruito nel relazionarsi con Trump: “Sono capaci di gestire l’ego di Trump, offrendo investimenti, riconoscimenti pubblici sulla leadership dell’americano e soprattutto la creazione di un ambiente di mediazione favorevole alle visioni dell’attuale amministrazione, chiedendo in cambio l’attività americana su interessi diretti e regionali”.
Per esempio l’abolizione delle sanzioni che può permettere la ripartenza alla Siria, l’impegno per i palestinesi o anche la mediazione pragmatica raggiunta con gli Houthi, sono obiettivi di distensione tattica fine strategico. Per l’esperta dell’Ecfr, la visita ha “cementato il ruolo dell’Arabia Saudita nel panorama intra-regionale”, dandole “un ruolo di spicco”, dando al regno un qualche ruolo di guida delle dinamiche regionali. E non a caso il presidente americano ha riservato la sua dichiarazione sull’evoluzione del Medio Oriente all’incontro tra business leader saudi-americani di Riad.