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Geoeconomia di Mar-a-Lago e la geopolitica eterna degli Stati Uniti. L’opinione di Preziosa

L’intuizione di Trump — che l’egemonia globale si giochi oggi soprattutto sul piano economico e tecnologico — è corretta. Ma il metodo adottato è quello di un impero sulla difensiva, non di una potenza sicura di sé. L’opinione di Pasquale Preziosa, docente di Geostrategia

Il cosiddetto Accordo di Mar-a-Lago, ispirato dall’amministrazione Trump e teorizzato da Stephen Miran, rappresenta molto più di un semplice piano economico: è un tentativo deliberato di trasformare la geoeconomia in arma principale della strategia globale americana, in continuità con la storica geopolitica degli Stati Uniti.

L’obiettivo è duplice: rilanciare l’industria manifatturiera, ridurre il deficit commerciale e, al contempo, preservare il ruolo del dollaro come moneta di riserva globale. Una sfida che mira a risolvere il dilemma di Triffin degli anni ’60 – la contraddizione tra leadership monetaria mondiale e squilibri interni – non più con accordi multilaterali equilibrati, ma con strumenti di pressione e coercizione.

Il piano prevede di svalutare il dollaro attraverso interventi valutari congiunti, ristrutturare il debito pubblico imponendo bond ultracentenari, usare i dazi come arma negoziale, e minacciare la sospensione delle garanzie di sicurezza agli alleati meno collaborativi. L’idea centrale del Mar-a-Lago Accord è che, per mantenere il primato globale, l’America debba abbandonare il multilateralismo economico e adottare una strategia di pressione sistematica sugli altri poli del sistema mondiale.

Trump applica così alla sfera economica ciò che da sempre è stato l’asse portante della geopolitica statunitense: il controllo delle rotte globali (Mahan), l’accerchiamento delle potenze terrestri (Mackinder), il dominio del Rimland eurasiatico (Spykman). Oggi, nell’era della globalizzazione, i mari e i territori sono sostituiti dalle filiere economiche, dal sistema monetario e dalle reti tecnologiche.

Il dollaro diventa così una “portaerei monetaria” da proteggere e rafforzare. I dazi, le tariffe e la minaccia di sanzioni fungono da nuove “linee di contenimento” contro Cina, Europa e alleati riottosi. Questa strategia appare coerente nei fini, ma rischiosa nei mezzi: ricordiamo che il fine della strategia è vincere.

Il rilancio della guerra commerciale contro la Cina — con dazi cumulativi saliti al 156% — e il progetto di trasformare il debito estero americano sono espressione di questa geostrategia economica offensiva. Tuttavia, l’approccio scelto da Trump presenta rischi evidenti.

Secondo Morgan Stanley e Nomura, la guerra dei dazi ha già causato danni irreparabili al ciclo economico globale: la crescita cinese rallenta sotto il 4,5%, si prevedono milioni di posti di lavoro persi, e gli stessi Stati Uniti rischiano una recessione sincronizzata con il resto del mondo.

L’uso aggressivo della leva economica, scollegato da una rete di alleanze solide, rischia di accelerare il declino americano anziché arrestarlo. Washington rischia di scardinare l’ordine globale che essa stessa aveva costruito nel dopoguerra, sostituendo il consenso multilaterale con la paura e l’instabilità.

L’intuizione di Trump — che l’egemonia globale si giochi oggi soprattutto sul piano economico e tecnologico — è corretta. Ma il metodo adottato è quello di un impero sulla difensiva, non di una potenza sicura di sé.

Il tentativo di “ristrutturare” il sistema globale imponendo dazi, svalutazioni e ricatti monetari rischia di isolare gli Stati Uniti e di accelerare l’emergere di nuove coalizioni alternative: un’Europa più autonoma, una Cina sempre più assertiva, un Global South che cerca nuovi equilibri.

In definitiva, la geoeconomia di Mar-a-Lago sembra un disperato tentativo di aggiornare la grande tradizione geopolitica americana ai tempi della multipolarità, ma senza comprenderne le profonde trasformazioni.

Il rischio non è solo quello di perdere amici e alleati: è di perdere, insieme, anche l’egemonia.


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