A differenza della Germania, l’Italia ha già fatto i conti con la sua destra. Dal 2022, il governo Meloni ha integrato le istanze conservatrici, canalizzandole in una forza di governo che, pur con contraddizioni, dialoga con l’Europa e stabilizza il Paese. Roma ha capito che ignorare l’elettorato di destra alimenta gli estremi. Berlino, invece, resta indietro, e il prezzo di questa miopia potrebbe essere alto
Berlino, 6 maggio 2025. Il Bundestag si riunisce per eleggere il nuovo cancelliere, ma Friedrich Merz, leader della CDU, inciampa al primo turno.
Poi riesce (con un accordo sull’ordine dei lavori con le opposizioni di sinistra) a ottenere la fiducia nel secondo voto, quindi chiude la giornata come nuovo Primo Ministro.
Politicamente però dobbiamo guardare alla prima votazione.
Con 310 voti, sei in meno della maggioranza assoluta, il candidato della coalizione CDU-SPD subisce una battuta d’arresto significativa.
Fotografati da franchi tiratori, nascosti tra i banchi di CDU/CSU e SPD, mandano in pezzi un accordo che pareva blindato. È la prima volta nella storia della Repubblica Federale che un candidato cancelliere cade così al debutto parlamentare. Un segnale di fragilità che scuote la Germania e l’Europa.
Ma qual è la vera causa di questo scivolone? La risposta è scomoda: il sistema politico tedesco rifiuta di fare i conti con la forza elettorale di Alternative für Deutschland (AfD). Con il 20,8% dei voti alle elezioni del 23 febbraio, AfD è la seconda forza del Paese, con 152 seggi. Un exploit che raddoppia i consensi del 2021, specie nei Länder orientali, dove sfiora il 34%. Eppure, il “Brandmauer”, il cordone sanitario dei partiti tradizionali, continua a isolare AfD, trattandola come un paria.
Questa strategia, però, scricchiola. La bocciatura alla prima votazione di Merz non è solo frutto di dissidi interni alla coalizione, ma sintomo di un malessere profondo. Il sistema politico tedesco, progettato per la stabilità tramite coalizioni, fatica a gestire la polarizzazione. AfD, con il suo euroscetticismo e la retorica anti-immigrazione, intercetta un disagio reale: quello di chi si sente tradito dalle élite di Berlino e Bruxelles. Negarlo amplifica il problema.
La “Grosse Koalition” CDU-SPD, con 328 seggi su 630, sembrava solida. Ma i 18 voti mancanti rivelano crepe: nella CDU c’è chi guarda ad AfD, specie sull’immigrazione, dove Merz ha inasprito i toni; l’SPD, crollata al 16,4%, teme di perdere a sinistra, stretta tra Verdi (11,6%) e Die Linke (8,8%).
Il sistema elettorale, misto proporzionale-maggioritario, riflette la pluralità ma non frena la frammentazione. La riforma del 2023, che fissa a 630 i deputati, complica le coalizioni. La soglia del 5% esclude sigle come BSW e FDP, concentrando i seggi. Eppure, AfD e Die Linke possono bloccare riforme chiave, come quella del “freno al debito”.
Lo smacco di Merz apre scenari incerti, perché il rimedio trovato nel corposo della giornata non ripara il danno “politico”: la legislatura inizia con uno schiaffo all’accordo di Grande Coalizione che mai si era visto nella storia parlamentare tedesca.
Adesso guardiamo a casa nostra, dove, a differenza di Berlino, l’Italia ha già fatto i conti con la sua destra. Dal 2022, il governo Meloni ha integrato le istanze conservatrici, canalizzandole in una forza di governo che, pur con contraddizioni, dialoga con l’Europa e stabilizza il Paese. Roma ha capito che ignorare l’elettorato di destra alimenta gli estremi. Berlino, invece, resta indietro, e il prezzo di questa miopia potrebbe essere alto.