Dai quesiti dell’8 giugno Schlein spera che possa ripartire la rimonta del centrosinistra verso la conquista di Palazzo Chigi. Ma è un azzardo puntare tutto su quell’appuntamento perché si rischia di arrivarci con un Pd diviso, in rotta di collisione interna tra riformisti, legati all’area centrista e la maggioranza sinistra-sinistra che sostiene la segretaria. Come vincere basta leggerlo nei risultati delle elezioni comunali di domenica. L’opinione di Maurizio Guandalini
Gli italiani non andranno a votare i cinque referendum. Presi i cinque quesiti si ha l’immagine plastica di un patchwork. Cinque tasselli che, in caso di vittoria dei sì, non risolvono nulla perché quello che manca, per ogni tema preso in esame, sono leggi, riforme complessive, da quella del lavoro a quella sull’immigrazione. Mobilitare un paese su questioni che sfiorano il tecnicismo (è la classe politica seduta in Parlamento chiamata a risolverle) quando il mondo fuori cade a pezzi, appare un dispendio di energie senza obiettivo.
Diciamolo senza timori di smentita. I referendum li vediamo più una resa dei conti a sinistra. Prima nel Pd. Poi nel centrosinistra. Possibile, probabile. Che sarà. Un gamma di posizioni a estuario. In formato boomerang vero e proprio, che gli si ritorceranno contro, allargando ancor più le divisioni di una coalizione che ha la necessità esattamente contraria.
Schlein è fuori tema se pensa che dai referendum possa ripartire la rimonta del campo largo alle prossime elezioni politiche. Così come vacillano i piani che ha in testa la segretaria del Pd per i prossimi mesi, i prossimi anni. La presa del partito, marginalizzare la minoranza interna, congresso anticipato e quindi premiership. Un “passage to Chigi” legittimo. Ci mancherebbe. Ma che non fa i conti con un partito un po’ così. Che mette e toglie i segretari come fossero tappi di bottiglia.
Ha ragione Schlein quando dice che lei ha vinto le primarie per correggere gli errori che avevano fatto i suoi predecessori. Perfetto e lineare il suo percorso. Fino a dimostrare che è una vera leader e quello che conta nei partiti è la leadership. Forte. Si veda la durata della segreteria Salvini o Meloni, malgrado i loro percorsi non sia stati solo rose e fiori. Con Schlein il mito della ditta, parola coniata dall’ex segretario Pd Bersani per contrastare Renzi uomo solo al comando, è tombata. Quello che conta è chi guida. Che si porta dietro tutto il resto. Salvo ostacoli. Renzi è il solo segretario del Pd che ha tentato di riformare il partito in senso socialdemocratico e alla fine è stato infagottato dal partito stesso. Il suo sforzo è stato quello di dare una veste culturale. Ideologica se volete. Facendolo uscire da quel né carne né pesce che spesso abbiamo incontrato di fronte.
Schlein nel verso sinistra-sinistra, qualcuno azzarda nuances di comunismo berlingueriano, evviva Dio se si tratta di dargli personalità, è riuscita a virare in questa direzione ma non proprio con disinvoltura. A discapito della chiarezza, a volte. Si guardi all’Ucraina. 4-5 posizioni diverse del Pd a Strasburgo. Non si può tenere insieme nusco e brusco. Devi scegliere. Capiamo che l’appartenenza alla famiglia dei socialisti europei è condizionante anche per le politiche interne ai singoli Stati. Se confronto ruvido ha da essere, si compia senza guardare in faccia nessuno. Sull’altro versante, fatto a capo a che i partiti malgrado ardui tentativi non riusciranno a tornare ai fasti andati, a partire dal loro radicamento (strumento necessario per stare accanto, ascoltare, raccogliere le istanze delle persone, non ci sono altre formule astruse per energizzare i partiti e la politica) non rimane che lavorare sulla compattezza senza dare la sensazione di soffocare le minoranze, i pareri contrari. In particolare per il referendum sul jobs act il Pd ha sofferto spaccature pesanti, innestate dall’ala riformista (quella che ai tempi di Berlinguer era identificata con il gruppo dei miglioristi cappeggiato da Napolitano, Chiaromonte, Cervetti per l’ala lombarda ecc.) che durante il governo Renzi lo approvarono. La segretaria del Pd ha detto che la linea non cambia. 5 sì. Prova ardua. Schlein richiama all’ordine un partito che quasi mai all’esterno lo si vede unito e compatto. Questo perché è una formazione che non si è mai riappacificata con sé stessa. E’ incapace di stare insieme. Osservando delle regole. Che non ci sono. Una tecnicalità che Schlein può ben prendere dal catino berlingueriano del partito è il centralismo democratico. Non si capisce perché non l’ha ancora fatto. Il Pd è in origine un amalgama di due partiti (Margherita e Ds) che non si sono mai uniti veramente. Nemmeno le casse sono riusciti a metterle insieme (che infatti sono protette in due fondazioni distinte che custodiscono i beni immobiliari).
Darsi regole di convivenza dentro il Pd serve poi per la costruzione del centrosinistra che ad ora pare essere più miraggio. Si veda la vittoria nelle comunali di domenica. A Ravenna, a Genova. Lì c’è la formula inequivocabile per vincere. E, infatti, il centrosinistra unito riesce portare a casa il risultato. Dove è scompagnato non decolla. Così vale per il centrodestra con il caso di Taranto e il distacco della Lega.
Riuscirà Schlein essere premier? Come metterà insieme Calenda e Conte? Sono domande che hanno una risposta nel programma. Si sa non c’è coalizione che una volta al governo ha rispettato il programma. Gli standard di governo più o meno si equivalgono perché sottoposti a rigidi schemi sovranazionali. Rimane la designazione della leadership. Consigliamo a Schlein che per assicurarsela metta in uso il sistema che c’è nel centrodestra. È premier della coalizione il leader del partito che prende più voti. Forse con un percorso così strutturato i sogni di gloria di Schlein troveranno maggiore probabilità di attuazione.