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Il monito di Moody’s e l’eredità dei Cinque stelle. L’opinione di Polillo

Le modifiche legislative che sono state introdotte dal governo Meloni hanno raffreddato il problema del Superbonus fino a farlo quasi scomparire, come testimonia il rating di Moody’s. Che tuttavia non è riuscito a far sgombrare il campo da quelle pregiudiziali che continuano ad avvelenare il clima della politica italiana. L’analisi di Gianfranco Polillo

Speriamo che, alla fine, i Cinque Stelle si rassegnino ed ammettano le loro colpe. Finora era stato solo il 99% degli economisti italiani a rimproverare loro una finanza troppo allegra, durante il governo giallo verde. Troppi bonus distribuiti a destra e manca: dal “reddito di cittadinanza” per chi non poteva o non aveva voglia di lavorare, almeno in chiaro, fino al “bonus per l’edilizia” con l’idea, per la verità più recondita che reale, di favorire il risparmio energetico.
Di fatto un regalo: considerato che lo Stato si faceva carico del 110% del costo dell’intera operazione. Senza parlare delle numerose truffe e raggiri, ad approfittarne soprattutto i “furbetti del quartierino”, (copyright di Stefano Ricucci) proprietari di immobili di pregio, ville e finanche qualche castello, in grado di far fronte alle complesse ed onerose procedure per ottenere le necessarie autorizzazioni. Mentre nelle sperdute periferie delle grandi città, il più delle volte, mettere in moto processi di quella complessità, non era alla portata di tanta povera gente.

A quelle critiche i Cinque Stelle avevano risposto, sapendo di mentire, che i costi sostenuti dallo Stato sarebbero stati quasi interamente recuperati grazie al conseguente aumento delle entrate fiscali, legate alla stessa operazione. Tesi, per la verità, più volte contestata dai tecnici della Ragioneria dello Stato, messi immediatamente a tacere, di fronte ai desiderati del Principe. Che l’Italia fosse sprovvista di una procedura garantista, ai fini del controllo della finanza pubblica, lo si sapeva da tempo.

Donald Trump, ormai in rotta di collisione con il suo Deep State, cercherà, probabilmente, di seguire quell’esempio. Ha scritto Moody’s, come ricordato da Gianluca Zapponini, su queste stesse pagine: “Il risultato di bilancio del 2024 è stato migliore di quanto previsto da noi e dal governo, con un deficit al 3,4% del Pil rispetto al 3,8% previsto a bilancio. Il principale fattore determinante del miglioramento del risultato di bilancio è stata una riduzione della spesa, dovuta principalmente all’eliminazione graduale dei crediti d’imposta per le ristrutturazioni edilizie ad alta efficienza energetica (Superbonus, ndr), ma anche alla forte crescita delle entrate derivanti principalmente dalle imposte sul reddito delle persone fisiche e da altre imposte”.

Immediata la risposta imbarazzata dei Cinque Stelle, tramite l’Ufficio stampa del Parlamento, un paravento dove nascondere la faccia, e da dove lanciare la palla in tribuna. Comunque positivo il fatto che non si sia nuovamente insistito sul loro vecchio cavallo di battaglia: quella politica economica aveva consentito all’Italia di crescere. Ma poi era stato veramente così? Per la verità Eurostat dimostrerebbe il contrario. A partire dal 2001 la distanza tra l’Italia e l’Eurozona sarebbe progressivamente cresciuta, raggiungendo il suo massimo (14,1 punti di Pil) proprio nel 2020: anno di assoluto dominio del governo giallorosso. In seguito si sarebbe progressivamente ristretta seppur di poco.
C’è quindi un primo dato che contrasta fortemente con le tesi degli ex grillini.

Se poi si giunge alle note dolenti, rappresentate dai costi, vien quasi voglia di piangere. In base alle ipotesi dell’Istat, sarebbe attribuibile al complesso dei bonus a favore dell’edilizia (superbonus, facciate, efficientamento energetico e via dicendo) una maggiore crescita del Pil, nell’arco del triennio 2021/23 che può essere valutata, in un complessivo 7,3% del Pil. Da ridurre, tuttavia, almeno di uno 0,9% per escludere quegli investimenti che si sarebbero, comunque, realizzati anche senza incentivi (media 2014/2019). Su quel netto, pari al 6,4% cumulativo, va poi considerato il peso delle sole abitazioni civili (oggetto del bonus) il cui peso è pari all’incirca al 48% del totale del comparto “costruzioni”. Ne deriva, pertanto, che quel maggior contributo, si riduce ad uno scarso 3%: in soldoni a poco meno di 60 miliardi di euro, sempre nel triennio.

A questo indubbio beneficio, rappresentato dalla maggior produzione di ricchezza nazionale, si è, purtroppo, contrapposta una crescita vertiginosa della spesa pubblica direttamente a carico del bilancio dello Stato per circa 220 miliardi. Stando almeno alla ricostruzione minuziosa di Luciano Capone e Carlo Stagnaro (Superbonus, come fallisce una nazione – Rubettino 2024). Alla fine, quindi, il moltiplicatore fiscale è risultato pari a poco più del 27%. In altre parole lo Stato ha speso 100 per ottenere una crescita pari a 27. Contraddizione che si spiega considerando l’eccessivo peso del beneficio concesso. Di solito, invece, l’incentivo fiscale serve a mobilitare, e non certo a sostituire, l’investimento privato. Per cui quel rapporto è in genere superiore all’unità e consente di mettere in moto risorse che altrimenti sarebbero rimaste inutilizzate.

Che quel bonus pari al 110% non sia stato un buon affare per quel 96% di proprietari di case, che non ne hanno beneficiato, ma che, in compenso sono stati chiamati a sostenerne il relativo onere, è poco, ma sicuro. Alla base di quella scelta era stato, come nel caso del reddito di cittadinanza, il tentativo di estendere la base del consenso intorno ad un Movimento che già avvertiva i primi segni di una crisi interna. Destinata a scoppiare da lì a pochi mesi. Al grande pubblico l’iniziativa era stata presentata come sorta di pietra filosofale medievale: capace cioè di trasformare il piombo in oro. A valle di tutto una cattiva lettura di John Maynard Keynes e del suo celebre passo sulle “buche da scavare e poi riempire”, per superare la congiuntura negativa di un Paese che viveva al di sotto del suo potenziale produttivo. Uno stimolo, quindi, come appena ricordato, ma nel quadro di una compatibilità sistemica, che i Cinque stelle ed in particolare Giuseppe Conte, alle prese con ben altri obiettivi, hanno volutamente trascurato.

E le conseguenze a distanza di tempo si sono ampiamente manifestate. Basti considerare come in quegli anni era aumentato il rapporto debito pubblico Pil. Secondo i dati di Eurostat, nel 2020 l’incremento del debito pubblico in Italia (20,5 punti di Pil) aveva toccato il suo record storico, superando anche la dinamica degli anni ’80. Ovviamente c’era stato il Covid, che era stato, tuttavia, manifestato in tutti gli altri Paesi europei. Sennonché nell’Eurozona l’incremento del debito in quell’anno era stato di poco superiore (12,9 punti di Pil) alla metà del record italiano. Destinato a rimanere la stimma principale del duo Conte-Gualtieri. Il primo presidente del consiglio, il secondo Ministro dell’Economia.

Speriamo solo che, ora, si possa scrivere la parola fine. Che non vi siano altre sorprese, come quelle a suo tempo ventilate dalla Camera dei deputati, che prevedeva un trascinamento dei costi relativi ai bonus concessi. Le modifiche legislative che sono state introdotte dal governo Meloni hanno raffreddato il problema fino a farlo quasi scomparire, come testimonia il rating di Moody’s. Che tuttavia non è riuscito a far sgombrare il campo da quelle pregiudiziali che continuano ad avvelenare il clima della politica italiana. Per carità: nessuna opposizione di Sua Maestà. Ma nemmeno quella dei semplici anatemi, il più delle volte costruiti sul nulla.


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