Il grido d’allarme lanciato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, sulla crisi dell’ex-Ilva di Taranto, ci mette di fronte a una realtà drammatica: la produzione è crollata, l’impianto è in ginocchio e il futuro dell’acciaio italiano è appeso a un filo. L’Italia non può permettersi di perdere l’ex-Ilva. Non è solo acciaio, è identità, lavoro, futuro. Urso ha suonato la campana, però è tutto il sistema istituzionale italiano che deve rispondere. Non c’è tempo da perdere: o si agisce subito, o Taranto diventerà un’altra Bagnoli. E con lei, un pezzo d’Italia
L’acciaio è il sangue dell’industria, la spina dorsale di un’economia moderna. Senza acciaio non si costruiscono ponti, automobili, navi, né si alimenta il ciclo virtuoso della manifattura. Per l’Italia, un Paese che vive di trasformazione e ingegno, l’acciaio è più di una commodity: è un asset strategico, un pilastro della sovranità economica. Eppure, il grido d’allarme lanciato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, sulla crisi dell’ex-Ilva di Taranto, ci mette di fronte a una realtà drammatica: la produzione è crollata, l’impianto è in ginocchio e il futuro dell’acciaio italiano è appeso a un filo.
Il 6 maggio un incendio all’altoforno 1 ha segnato un punto di non ritorno. Il sequestro dell’impianto da parte della procura di Taranto, motivato da ragioni di sicurezza e ambientali, ha complicato interventi di manutenzione tempestivi (“Si è intervenuti troppo tardi, rispetto a quanto era stato richiesto sulla base di chiare perizie tecniche, bisognava farlo entro 48 ore e purtroppo non hanno avuto l’autorizzazione a farlo – ha spiegato il ministro – È un danno notevole che avrà inevitabilmente immediate ripercussioni sull’occupazione”). Risultato? L’altoforno, che produce circa la metà dell’acciaio dell’ex-Ilva, è “del tutto compromesso”, come ha dichiarato Urso. I danni strutturali sono gravi, i tempi per il dissequestro troppo lunghi. Con un solo altoforno operativo (il 4), la produzione è ridotta al lumicino: nel 2023 Taranto ha sfornato meno di 3 milioni di tonnellate di acciaio, nel 2024 appena 2 milioni. Numeri da brivido, lontani anni luce dai 6 milioni previsti dai piani di rilancio.
Le conseguenze sono un macigno sull’economia nazionale. L’ex-Ilva non è solo un’azienda, è un ecosistema. A Taranto, migliaia di lavoratori – circa 7.000 diretti, senza contare l’indotto – rischiano la cassa integrazione di massa. La logistica, con il porto in crisi, soffre. Le aziende di autotrasporto sono al collasso, schiacciate dall’incertezza. E poi c’è l’impatto sistemico: l’industria italiana, dall’automotive alla cantieristica, dipende dall’acciaio di Taranto. Nel 2023, l’Italia ha importato circa 6,5 milioni di tonnellate di acciaio da Paesi extra-Ue, un dato che evidenzia la crescente dipendenza da forniture estere. Senza acciaio nazionale, questa dipendenza si aggrava, in un contesto globale complicato dai dazi e dalla competizione feroce di Cina e India.
Urso non ha usato giri di parole: “Se l’altoforno resta bloccato, salta la trattativa per la vendita”. Proprio così, perché in questo momento cruciale l’ex-Ilva era (forse) a un passo da una svolta. Dopo anni di gestione fallimentare sotto ArcelorMittal, i commissari straordinari avevano avviato un negoziato con Baku Steel, consorzio azero che aveva presentato un’offerta da un miliardo di euro. Un piano ambizioso, con due forni elettrici per una “siderurgia green” e una produzione massima di 6 milioni di tonnellate. Ma chi investirebbe in un impianto fermo, con un altoforno fuori uso e il rischio di ulteriori stop giudiziari?
Qui si gioca una partita più grande. Taranto non è solo un problema locale, è un banco di prova per la politica industriale italiana. Urso ha ragione a evocare lo spettro di Bagnoli, dove l’acciaieria chiuse i battenti lasciando una città orfana di futuro. Ma il confronto con il passato non basta. Serve una visione. La transizione ecologica, sacrosanta, non può strangolare l’industria: decarbonizzare sì, ma senza spegnere gli altoforni. E serve coraggio per affrontare il nodo giustizia: i sequestri sono legittimi, ma i ritardi burocratici sono un cappio al collo.
Il governo Meloni ha stanziato 250 milioni per garantire liquidità, ma non basta. Occorre un piano Marshall per l’acciaio, con investimenti pubblici e privati, un ruolo per Invitalia (magari con una quota significativa) e garanzie occupazionali. I sindacati, da Fiom a Fim Cisl, chiedono coinvolgimento e chiarezza sul piano industriale. Hanno ragione: senza un patto sociale, Taranto rischia di diventare un simbolo di declino.
L’Italia non può permettersi di perdere l’ex-Ilva. Non è solo acciaio, è identità, lavoro, futuro. Urso ha suonato la campana, però è tutto il sistema istituzionale italiano che deve rispondere. Non c’è tempo da perdere: o si agisce subito, o Taranto diventerà un’altra Bagnoli. E con lei, un pezzo d’Italia.