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Trump e Iran vicini a un accordo. Netanyahu pronto all’attacco?

Israele vede negativamente un accordo Usa-Iran. Il premier Netanyahu teme che possa compromettere la sicurezza dello Stato ebraico e della sua eredità politica. Ma Donald Trump pressa per un’intesa che possa aprire ad altre implementazioni: una linea apprezzata anche dal Golfo. Ma se Israele attacca l’Iran, tutto rischia di saltare e precipitare in un complesso conflitto regionale

C’è una fase complicatissima che riguarda l’Iran, Israele e Stati Uniti, ma che per estensione riguarda tutto il resto del mondo, a cominciare dalla regione strategica in cui l’Italia proietta in modo diretto e prioritario le proprie iniziative di politica internazionale — il Medio Oriente e Nordafrica. Il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu potrebbe essere pronto a lanciare un attacco preventivo contro le infrastrutture nucleari iraniane, proprio mentre l’amministrazione statunitense di Donald Trump sta per raggiungere un accordo preliminare per il controllo dell’arricchimento di materiale atomico con Teheran.

Una spifferata su un report dell’intelligence statunitense è arrivata ai media (per primo al New York Times ieri), e questo è di per sé un segnale: Washington ha voluto rendere pubbliche le intenzioni dello Stato ebraico per far saltare il piano teoricamente segreto? Dalle informazioni pubblicate, gli Stati Uniti avrebbero avuto solo sette ore per fermarlo, ma la tempistica ha valore relativo: che Netanyahu stia lavorando per far saltare i negoziati tra Usa e Iran, arrivati al quinto incontro in due mesi, è noto.

Per Israele, l’accordo è assolutamente negativo, oggetto innanzitutto di un’opposizione ideologica. La Repubblica islamica è considerata, in parte a ragione, come il dante causa di tante delle istanze armate e non che teorizzano la distruzione dello Stato israeliano (con posizioni antisemite). Poi c’è una piano pragmatico: Netanyahu sta da quasi due anni conducendo il conflitto contro Hamas — seguito alla dichiarazione di guerra palestinese dopo l’attentato del 7 ottobre — e non sta raggiungendo risultati concreti. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un cumulo di macerie, le persone che restano nel territorio sono vittime di condizioni di vita disumane volute dal governo israeliano, la Comunità internazionale ha da tempo esaurito pazienza e giustificazioni con Israele. Ora Netanyahu, sempre più isolato, aumenta il livello del confronto in una sorta di redde rationem storica?

La continuazione della guerra potrebbe essere fondamentale anche per la sopravvivenza politica del premier. I partiti estremisti che gli permettono la maggioranza di governo non accettano alcun genere di compromesso, né con Hamas né con l’Iran, eventualmente; la popolazione lo accusa di non aver riportato a casa gli ostaggi del 7 ottobre; le pendenze penali potrebbero diventare realtà cruda se il governo cadesse; la sua eredità, dopo 20 anni di azione politica e di governo, sarebbe macchiata dal più grosso fallimento di sicurezza israeliano e dall’incapacità di aver risolto la reale, enorme problematica securitaria attorno allo Stato ebraico.

Secondo quanto riferito, i funzionari dell’intelligence statunitense dubitano dell’efficacia di un attacco unilaterale da parte di Israele. Stante le informazioni, i funzionari israeliani ritengono però che gli Stati Uniti non avrebbero altra scelta che fornire assistenza, se Teheran dovesse reagire, e sono per questo convinti che un attacco potrebbe essere effettuato anche se venisse raggiunto un accordo nucleare tra Stati Uniti e Iran. Ma è davvero così? Gli Stati Uniti del Maga 2.0 sono davvero disposti a farsi coinvolgere in quella che rischierebbe di essere una mostruosa guerra regionale?

Trump ha detto ieri di aver avvertito Netanyahu già la scorsa settimana di non intraprendere azioni che potessero compromettere i colloqui sul nucleare con l’Iran. “Gli ho detto che sarebbe stato inappropriato farlo ora, perché siamo molto vicini a una soluzione”, ha dichiarato Trump ai giornalisti riuniti nello Studio Ovale. Poi ha ammesso che “la situazione potrebbe cambiare da un momento all’altro”, ma la linea era chiarissima già da quell’avvertimento della scorsa settimana di cui parla Trump, che ci sarebbe stato durante una telefonata tra i due leader che non viene raccontata come “piacevole” da chi è informato.

Lo stato dei talks è questo: gli Stati Uniti e l’Iran sono vicini a un accordo che sarà probabilmente di piccola portata e servirà come base per negoziati più intensi e successivi. Gli Usa non stanno lavorando su alcuna implementazione: niente programma missilistico, niente discussione su come gestire i proxy che da anni hanno destabilizzato la regione (tra questi Hezbollah, Houthi, milizie sciite irachene ed entità come Hamas che sebbene più indipendenti ricevono aiuto da Teheran per le loro attività anti-israeliane). Il programma missilistico balistico iraniano non fa parte dell’attuale discussione, nonostante alcuni funzionari dell’amministrazione inizialmente spingano per includerlo. Dato quanto sono avanzati i colloqui a questo punto, questo genere di ampliamento non è possibile, spiegano fonti diplomatiche, perché Trump vuole un risultato.

D’altronde è stato lo stesso negotiator-in-Chief Steve Witkoff a suggerire, all‘inizio di maggio, che argomenti diversi dal file nucleare erano questioni “secondarie”. “Non vogliamo confondere la discussione nucleare perché per noi è la questione esistenziale”, aveva spiegato in un’intervista al media alt-right Breitbart. Dopo l’ultimo round di colloqui a Roma, le due parti hanno portato le proposte sul tavolo ai rispettivi leader dei loro Paesi per conferire e stanno progettando di incontrarsi di nuovo e presto, molto probabilmente in Oman. L’obiettivo è quello di raggiungere un accordo generale già al prossimo incontro. Si parla intanto di indicatori specifici per l’attuazione, ma si punta a discussioni di follow-up sui dettagli tecnici, hanno detto i funzionari della Casa Bianca e fonti che hanno familiarità con le discussioni in corso.

Questa traiettoria è apprezzata dai paesi del Golfo, che hanno normalizzato le relazioni con l’Iran e messo in discussione — a livello retorico — quelle con Israele, nonostante gli Accordi di Abramo e un riavvicinamento generale siano parte di obiettivi strategici che travalicano il dramma di Gaza (che però in quanto tale non può essere ignorato dalla narrazione delle grandi capitali sunnite). La posizione degli alleati mediorientali dà ulteriore convinzione, sul piano dei riflessi regionali, alla linea che Trump sta percorrendo con l’Iran — e crea maggiore nervosismo a Tel Aviv.

Venerdì scorso, mentre Iran e Usa si riunificano nella residenza dell’ambasciatore omanita a Roma, il ministro israeliano per gli Affari Strategici, Ron Dermer, e il capo del Mossad, David Barnea, hanno incontrato Witkoff nella capitale italiana. Lunedì si sono recati a Washington per incontrare il direttore della Cia, John Ratcliffe. Dermer avrebbe incontrato nuovamente Witkoff martedì, sebbene l’argomento di questo incontro non è noto, e i media ebraici l’hanno collegato ai tentativi di raggiungere un accordo per la liberazione di alcuni ostaggi. Mercoledì le notizie sulla volontà concreta di attacco israeliano sono state rese pubbliche e commentate da Trump.


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