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Le democrazie e il senso della guerra. Il caso tedesco visto da Arditti

Sostenere l’Ucraina non significa solo inviare armi, ma accettare che la vittoria richiede un impegno senza riserve. Questo non significa desiderare la guerra, ma riconoscere che, una volta iniziata, va combattuta con tutti i mezzi necessari. Prima l’Occidente supererà questo limite intellettuale, meglio sarà per l’Ucraina, per l’Europa e per la sicurezza globale. Il commento di Roberto Arditti

La recente dichiarazione del cancelliere tedesco Friedrich Merz, che ha annunciato la rimozione delle restrizioni sulla gittata delle armi fornite all’Ucraina, segna un punto di svolta (per ora solo politico) nel conflitto in corso e, più in generale, nella postura strategica dell’Occidente. Non si tratta solo di un cambio di passo nella politica di Berlino, che apre alla possibilità di fornire i missili Taurus a lungo raggio (500 km), ma di un atto che mette in discussione un approccio finora timoroso e autolimitante dell’Europa e degli Stati Uniti nel sostegno a Kyiv. Questa decisione, condivisa con Regno Unito, Francia e Stati Uniti, consente all’Ucraina di colpire obiettivi militari in territorio russo, superando una “linea rossa” che il Cremlino aveva tentato di imporre.

La mossa di Merz, che rompe con la prudenza del suo predecessore Olaf Scholz, riflette (finalmente) una consapevolezza che inizia a farsi strada: pensare di combattere una guerra – e, soprattutto, di vincerla – ponendosi limiti arbitrari è non solo ridicolo, ma antistorico. La storia delle guerre, da quelle napoleoniche alla Seconda Guerra Mondiale, ci insegna che la vittoria si ottiene con determinazione, chiarezza di obiettivi e l’impiego di tutte le risorse disponibili. Imporsi restrizioni artificiali, come il divieto di colpire obiettivi oltre una certa distanza, equivale a combattere con una mano legata dietro la schiena, come ha già sottolineato in passato l’allora segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.

L’Occidente, in questi anni di conflitto ucraino, ha spesso agito con un misto di cautela e ambiguità, temendo un’escalation che potesse trascinarlo in un confronto diretto con Mosca. Questa paura, comprensibile ma paralizzante, ha prodotto una strategia frammentata: forniture di armi sì, ma con paletti; sostegno militare sì, ma con il freno a mano tirato. I missili Atacms americani (300 km), gli Storm Shadow britannici e gli Scalp francesi (250 km) sono stati consegnati a Kyiv, ma con vincoli che ne limitavano l’uso contro obiettivi strategici in Russia. La Germania, fino a poco tempo fa, si è distinta per un atteggiamento ancora più restrittivo, rifiutando di fornire i Taurus per evitare un coinvolgimento diretto, come sostenuto da Scholz per timore di un’escalation.

Questa postura riflette un limite intellettuale profondo dell’Occidente: l’idea che si possa vincere una guerra senza accettarne pienamente i rischi e le responsabilità. È un’illusione che deriva da una visione idealizzata del conflitto, come se la vittoria potesse essere ottenuta attraverso una gestione “pulita” e controllata. La realtà, tuttavia, è diversa. La Russia di Putin non si è mai posta simili scrupoli, colpendo città, ospedali e infrastrutture civili ucraine senza remore. L’Ucraina, per contro, ha dimostrato una straordinaria capacità di resistenza, ma la sua possibilità di invertire le sorti del conflitto dipende dalla capacità dell’Occidente di abbandonare le proprie inibizioni.

La possibile fornitura dei missili Taurus rappresenta un passo in questa direzione. Questi missili, con la loro gittata e precisione, potrebbero consentire a Kyiv di colpire infrastrutture strategiche russe, come il ponte di Kerch, un obiettivo cruciale per interrompere le linee di rifornimento verso la Crimea occupata. Tuttavia, la decisione di Merz non deve essere vista solo come una questione tecnica o militare. È un segnale politico: l’Occidente deve smettere di autolimitarsi se vuole davvero sostenere l’Ucraina.

Questo limite intellettuale, che potremmo definire una forma di “pacifismo strategico”, è radicato in una visione del mondo che rifiuta la natura brutale della guerra. È comprensibile, in un’Europa che ha conosciuto la pace per decenni, ma è anche pericoloso. La storia non perdona chi si illude di poter affrontare un avversario determinato come la Russia con mezze misure. La Seconda Guerra Mondiale non fu vinta con compromessi o restrizioni autoimposte, ma con un impegno totale, che incluse sacrifici immensi e decisioni difficili.

Il Cremlino, per bocca di Dmitrij Peskov e altri esponenti, ha reagito alla svolta tedesca definendola “pericolosa” e contraria a ogni prospettiva di soluzione politica. È una retorica prevedibile, che cerca di sfruttare le paure occidentali per mantenere il vantaggio strategico. Ma cedere a queste minacce significa perpetuare un ciclo di debolezza che non fa che incoraggiare l’aggressione russa.

È tempo che l’Occidente faccia i conti con questa realtà, e lo faccia ora, prima che sia troppo tardi. La decisione di Merz è un primo passo, ma deve essere accompagnata da una riflessione più ampia: sostenere l’Ucraina non significa solo inviare armi, ma accettare che la vittoria richiede un impegno senza riserve. Questo non significa desiderare la guerra, ma riconoscere che, una volta iniziata, va combattuta con tutti i mezzi necessari. Prima l’Occidente supererà questo limite intellettuale, meglio sarà per l’Ucraina, per l’Europa e per la sicurezza globale.


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