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L’Italia guardi all’Europa senza dimenticare la Difesa. L’opinione di Nones

L’evoluzione della politica di difesa comune europea procede tra nuove istituzioni e programmi ambiziosi, ma l’Italia continua a restare spettatrice più che protagonista. Mentre l’Europa si riorganizza di fronte al disimpegno americano e alle incertezze globali, Roma rischia di mancare l’appuntamento con la storia. L’opinione di Michele Nones, vice presidente dell’Istituto affari internazionali

Lo sconquasso provocato nello scenario internazionale dall’amministrazione Trump rende molto più difficile prevedere le sue possibili implicazioni. Questo vale inevitabilmente anche per il processo di integrazione europea nel campo della politica estera e di difesa. Se in passato la maggior parte degli osservatori erano convinti che, dopo l’attacco russo all’Ucraina, si sarebbero fatti comunque importanti passi avanti, dall’inizio dell’anno molti sono diventati giustamente più cauti. Il rischio di un progressivo disimpegno americano nell’assicurare la sicurezza europea e la crescita del sovranismo nazionale che, nelle sue forme più estreme, potrebbe rimettere in discussione anni di lento avvicinamento intra-europeo, rendono più difficile il percorso condiviso dalla stragrande maggioranza degli Stati membri: un rafforzamento della difesa europea come secondo pilastro (insieme a quello americano) dell’Alleanza Atlantica.

L’Italia ha sempre sostenuto questa posizione, dimostrando per lo meno in questo, una encomiabile condivisione bipartisan (a parte i populisti di destra e di sinistra che hanno costantemente cercato di remare contro, dimostrando di voler far prevalere gli interessi elettorali su quelli nazionali). Questa postura è emersa più a livello internazionale che nazionale, ma, purtroppo, è un tratto caratteristico della nostra classe dirigente, sempre troppo attenta alla politica interna e mai abbastanza a quella internazionale. Va, comunque, dato atto alla nostra presidente del Consiglio e ai ministri più coinvolti (Esteri e Difesa) di avere rafforzato in quest’ultimo biennio la nostra proiezione internazionale e limitato i danni provocati dalla componente populista della maggioranza.

Le iniziative europee per rafforzare le capacità di sicurezza e difesa collettive sono partite ventuno anni fa con la costituzione dell’Agenzia europea della difesa, un organismo intergovernativo volto a coordinare le iniziative e i programmi degli Stati europei, sono proseguite sedici anni fa con una prima parziale regolamentazione europea del mercato della difesa e hanno trovato una spinta concreta sette anni orsono con i primi finanziamenti a programmi di ricerca e sviluppo militare. Ora con il programma ReArm Europe e Safe dovrebbero prendere nuovo slancio. Più recentemente le novità hanno coinvolto anche le istituzioni comunitarie. Nella scorsa legislatura era stata istituita una nuova Direzione Generale per l’Industria della difesa e lo spazio. In quella attuale è stato nominato uno specifico Commissario europeo per la stessa area e nel Parlamento è stata istituita, per la prima volta, una specifica Commissione Difesa. L’assetto è lungi dall’essere completo e, tanto meno, perfetto, ma va riconosciuto che, insieme alla politica estera, anche quella della difesa è entrata da protagonista sul palcoscenico europeo.

L’Italia ha partecipato attivamente a questa trasformazione in termini di sostegno politico, ma, purtroppo, non è stata capace di inserirsi nei vertici dei nuovi centri decisionali. In generale sembra esservi un ritardo nel prendere atto che, insieme alla Nato, anche l’Unione europea sta diventando un attore importante nel campo della difesa e della sicurezza (pur con ancora forti limitazioni).

Dal momento della sua costituzione nel 1949, nella Nato l’Italia ha occupato per quattro volte il posto di presidente del Comitato Militare (con un generale dell’Esercito e tre ammiragli, compreso quello oggi in carica), quattro volte il posto di segretario generale e dieci volte quello di vicesegretario generale. Nell’Ue ha occupato per due volte il posto di presidente del Comitato Militare, istituito nel 2001, e una volta quello di Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, a partire dal 1999. Nella nuova Direzione Generale per l’Industria della difesa e lo spazio Defis, istituita nel 2019, fra i dieci dirigenti al vertice non c’è nessun italiano e ve ne è uno solo fra i diciannove del secondo livello. Eppure la Defis gestisce il portafoglio della Commissione, fra cui fondamentale è Edf, l’European Defence Fund con cui stanno finanziando e co-finanziando i programmi europei di ricerca e sviluppo, e Edip, l’European Defence Industry Programm con cui in futuro si finanzieranno le acquisizioni comuni, e ReArme Europe e Safe, con cui si assicureranno nuove risorse nazionali ed europee per il rafforzamento delle capacità europee di sicurezza e difesa.

Nell’Eda, l’Agenzia europea per la difesa, dalla sua istituzione nel 2004, su sette direttori (Chief Executive) non ne abbiamo avuto nessuno a differenza di Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Repubblica Ceca ed ora, di nuovo, Germania. Oltre tutto il nuovo direttore tedesco appena nominato è, per la prima volta, un militare e, quindi, sarebbe stato più facile per l’Italia sostenere che era giunto il nostro turno, considerando il nostro ventennale incondizionato sostegno all’Eda, il nostro peso in Europa e la capacità e competenza dimostrata dagli alti ufficiali italiani in ambito europeo ed internazionale. Per rafforzare la nostra richiesta avremmo potuto anche ricordare che un solo italiano ha occupato nei primi anni il ruolo vicedirettore (e nemmeno lui è stato poi promosso direttore). L’Eda è, per altro, l’unico organismo intergovernativo europeo diretto e presidiato dai ministeri e dai ministri della Difesa e, fin dall’inizio, ha svolto un ruolo importante nel cercare di omogeneizzare le diverse iniziative militari nazionali, oltre che nel promuovere progetti di innovazione comuni.

Fra le altre cause dell’assenza italiana, oltre alla disattenzione per la costituzione e la crescita dei centri decisionali europei, vi è stata un’eccessiva attenzione per il profilo di politica estera rispetto a quella di difesa, in parte inevitabile visto che l’inserimento di personale italiano è gestito dal ministero degli Affari esteri. Ma vi è stata anche un’eccessiva attenzione delle Forze Armate per le posizioni militari più prestigiose, nella Nato e nell’Ue, che svolgono, però, solo ruoli consultivi. Ovviamente, per fare accettare candidati italiani nelle strutture della Commissione bisognerebbe avere dei candidati interni con un profilo adeguato e questo è un percorso molto lungo che dovrebbe essere compiuto insieme a loro. Ogni volta che si apre una posizione di nostro interesse, sembra, invece, che vi arriviamo impreparati o che non ci vogliamo scontrare con gli altri partner. Lo stesso vale per l’Eda dove le candidature vanno preparate per tempo, ma, proprio per questo, andrebbero sostenute con continuità, facendo prevalere l’interesse nazionale su ogni altra considerazione di equilibrio interforze e/o di vicinanza politica.

Se non cambieremo impostazione, continueremo a farci male da soli e non si può attribuire sempre la responsabilità ai “cattivi” di turno. È giusto tenere un atteggiamento politico proattivo nei vertici politici a Bruxelles, ma l’Italia risulterà inevitabilmente indebolita se non avremo un’adeguata presenza di dirigenti italiani all’interno delle istituzioni europee.


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