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Né ulteriore debito né tagli al welfare. La ricetta di Camporini per finanziare la Difesa

Passata la deadline del 30 aprile, sono 16 i Paesi europei che hanno fatto richiesta di poter emettere ulteriore debito per finanziare la propria Difesa in deroga al Patto di stabilità. Come preannunciato, e nonostante fosse stata tra i primi promotori della misura, l’Italia manca all’appello. Il rischio ora è di ritrovarsi tagliati fuori dal resto d’Europa e di non essere in grado di mantenere gli impegni Nato. Esistono anche altre vie per finanziare la Difesa senza toccare il welfare, ma per farlo saranno necessarie disciplina e razionalità. L’intervista al generale Camporini

L’Europa farà debito per la Difesa. O almeno, una parte d’Europa. La data del 30 aprile, indicata dalla Commissione europea come termine per presentare ufficialmente la domanda di attivazione delle clausole di salvaguardia per investire sulla Difesa tramite un allentamento dei vincoli sul deficit, è passata. Ad oggi, sono 16 i Paesi europei che hanno ufficialmente chiesto (e quindi ottenuto) di poter emettere ulteriore debito per finanziare la loro Difesa, così come previsto dal Piano ReArm Europe/Readiness 2030. Oltre alla Germania, a fare richiesta di attivazione sono stati Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Lettonia, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Tra i grandi Paesi europei, si nota l’assenza della Spagna e della Francia, ma anche dell’Italia. Sulle ragioni di queste assenze, nonché sulle implicazioni per il futuro della difesa, nazionale ed europea, Airpress ha discusso con il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa.

Generale, dopo la Germania anche altri 15 Paesi europei hanno fatto richiesta di attivare la clausola di salvaguardia per emettere ulteriore debito per la Difesa in deroga al Patto di stabilità. Si aspettava una partecipazione così alta? 

Sicuramente parliamo di una richiesta significativa. Non pensavo che si arrivasse a così tanti Paesi, ma certamente non mi aspettavo che fossero in pochi a richiedere di attivare la clausola di salvaguardia per finanziare gli investimenti necessari a garantire una capacità operativa adeguata.

Per lungo tempo, sul piano politico, si è discusso dell’Europa a due velocità. Ora, con questa netta divisione tra chi spenderà di più e chi no, rischiamo di creare, stavolta nell’ambito della difesa, un’Europa a doppia velocità?

Sì, sicuramente questo è il rischio. Peraltro, vale la pena osservare che stiamo parlando di un panorama ben definito di Paesi. Dei grandi, solo Italia e Francia non hanno attivato la clausola di salvaguardia. Ma la Francia, che possiede il deterrente nucleare, rimane nella partita. Non c’è il minimo dubbio al riguardo. Siamo noi a rischiare di restare emarginati.

Venendo a questo, l’Italia non ha fatto richiesta di attivare la suddetta clausola, cosa ne pensa?

Lo trovo sinceramente paradossale, dal momento che siamo stati noi i primi a sollecitare lo scorporo delle spese militari dai vincoli al deficit per ampliare il bilancio della difesa italiana, che come è noto veleggia da sempre tra il 1,4-1,6% del Prodotto interno lordo. Alla fine, abbiamo convinto il resto dei Paesi europei, anche quelli scettici, ad accettare, salvo poi astenerci dall’utilizzare noi stessi questo strumento. Ora il problema diventa una questione di credibilità politica dell’Italia in Europa.

Perché, nonostante lo abbia proposto per prima, l’Italia non ha aderito?

Ritengo che questa decisione sia il risultato di una diatriba interna al governo, che è diventata evidente alla luce delle ultime dichiarazioni di Giorgetti e di Crosetto. Dichiarazioni che, volendo usare un eufemismo, fanno sorgere qualche perplessità.

A tal proposito, lo scontro Crosetto-Giorgetti ha riportato nuovamente il dibattito pubblico sul tema “spesa militare vs spesa sociale”. Lei cosa pensa al riguardo? Il problema è esclusivamente economico?

È chiaro che questo è innanzitutto un problema politico, prima ancora che economico. Il problema economico lo si può affrontare efficientando la spesa pubblica, il che però non vuol dire ridurre la spesa sociale. Vuol dire dare una raddrizzata a quella macchina mastodontica che è lo Stato, dove la burocrazia nutre se stessa e per ottenere un permesso — di qualsiasi natura — non bastano una giornata o un mese, ma ci vogliono a volte anche anni. Il risultato di tutto ciò è la scarsa attendibilità dell’Italia, specialmente nei confronti di potenziali investitori. Di esempi simili siamo pieni, basti pensare all’ormai dimenticata questione del rigassificatore in Puglia.

Tuttavia, di fronte al summit dell’Aja di fine giugno, il governo sarà probabilmente chiamato a far fronte a un nuovo gravoso impegno in ambito Nato (si parla di salire al 3,5% in rapporto al Pil). In che modo, a suo avviso, si deciderà di procedere?

Sarò molto franco. Io temo che non sarà preso nessun serio provvedimento, e quando dico serio intendo qualcosa di realistico e di realizzabile. Sto sentendo, in queste settimane, proposte fantasiose per includere nelle spese per la difesa anche delle spese che fino ad ora non erano state conteggiate, in modo tale da fare alzare la percentuale del Pil destinata a questo bilancio della difesa “rivisto”.

Si riferisce alla possibilità di conteggiare anche spese come quelle per le Forze dell’ordine e le infrastrutture portuali come spese per la Difesa?

Esatto. Chi sostiene questa linea dice che vanno incluse tutte le Forze dell’ordine, giacché svolgono attività, in caso di guerra, parteciperebbero alla difesa del Paese. A questo punto, tanto varrebbe contare anche i vigili urbani, dal momento che anche loro contribuiscono alla difesa del traffico. Battute a parte, ritoccando i conti in questo modo c’è il rischio che gli altri se ne accorgano.

E quindi?

E quindi ci troveremmo fuori dai giochi. E essere fuori dai giochi non significa non partecipare ai vertici, significa che quando si tratterà di fare investimenti le nostre industrie potrebbero essere tagliate fuori e a pagarne le conseguenze saranno i grandi gruppi, da Leonardo a Fincantieri, e tutta la costellazione di piccole e medie imprese che operano nel settore della difesa e della sicurezza. Io spero che non si proceda in questa direzione.

L’alternativa però non sembra vedersi. Oltre a non voler percorrere la strada del debito, l’Italia si è detta contraria anche a ridestinare i fondi di coesione verso la Difesa. Esiste, allora, un modo per finanziare la Difesa senza penalizzare la spesa sociale?

Io sono convinto di sì. Osservando il bilancio di quest’anno, dell’anno prima e di quello prima ancora, io vedo un profluvio di sprechi, spesso realizzati per dare mancette a singole categorie elettorali. E parliamo di sprechi che, messi insieme, danno origine a cifre consistenti. Io credo che sia possibile, con un minimo di disciplina, recuperare quei quattrini senza andare a intaccare la spesa sociale. Tra l’altro, credo che un’altra cosa che bisognerebbe fare passare come messaggio chiaro e inequivocabile è che la questione non è scegliere tra il burro e cannoni. Perché, ricordiamolo, senza i cannoni il burro non si fa. 


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