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La parata del riscatto, così Putin vuole mostrarsi meno isolato all’Occidente. L’analisi di Tafuro

A ottant’anni dalla vittoria sull’Asse, la parata del 9 maggio a Mosca si conferma un potente strumento di propaganda. Eleonora Tafuro Ambrosetti, senior research fellow del Russia, Caucasus and Central Asia Center dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, analizza con Formiche.net il valore simbolico dell’evento e il suo ruolo nella narrativa della guerra in Ucraina. Riflettendo anche sulle relazioni con Cina e Stati Uniti, sulle prospettive di pace e sul ruolo marginale dell’Europa nella mediazione del conflitto

L’annuale parata militare al centro di Mosca con cui si celebra la vittoria dell’Unione Sovietica contro i nazisti nella Grande Guerra Patriottica, di cui ricorre l’ottantesimo anniversario, è un evento il cui profondo significato politico è divenuto sempre più marcato con il trascorrere degli anni. E assume un valore ancora più simbolico in seguito all’invasione su larga scala dell’Ucraina avviata dalle forze armate russe nel febbraio del 2022. Formiche.net ha chiesto ad Eleonora Tafuro Ambrosetti, senior research fellow del Russia, Caucasus and Central Asia Center dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, la sua interpretazione di questa ricorrenza, approfittando per fare un punto più generale sulla postura geopolitica russa di oggi.

Qual è secondo lei il significato della parata del 9 maggio nella “religione laica” russa?

Il significato, secondo me, si articola su diversi livelli. A livello individuale, è ancora oggi un evento molto sentito in Russia, e lo è da parte di persone molto diverse. Da un lato, da coloro più esposti alla propaganda del Cremlino, che lo considerano un avvenimento importante, un segno della grandezza militare russa nel sconfiggere la Germania nazista di ieri e nel combattere l’Ucraina “nazista” di oggi. Ma anche tra le persone che si oppongono a Putin, questa ricorrenza è percepita come un evento rilevante. Poi, chiaramente, c’è la strumentalizzazione politica, che è sempre esistita. Non stupisce che il governo di Mosca cerchi di sfruttare questa ricorrenza sia per compattare l’opinione pubblica interna sia per proiettare un’immagine della Russia all’esterno. Già ai tempi sovietici c’era questo risvolto. Persino Eltsin, che voleva rappresentare una rottura con il passato sovietico, non ha soppresso la celebrazione del 9 maggio. Questo suggerisce quanto questa manifestazione sia stata e continui a essere importante sul piano politico per i diversi governi che si sono succeduti nei decenni.

E quanto sia importante questo anniversario per l’intera nazione…

“Nazione” è proprio la parola chiave. Lo stesso Eltsin, che menzionavamo poco fa, ha deciso di utilizzare questa celebrazione proprio per compattare la nuova nazione russa, “orfana” dell’Unione Sovietica. Ed è per questo che proprio l’evento della sconfitta del nazifascismo era, anche agli occhi di un personaggio come Eltsin, un elemento fondativo della Russia moderna. Motivo per cui ha scelto di utilizzarlo.

Che significato ha questa celebrazione nel 2025?

Da ormai tre anni, questa commemorazione viene messa in stretta correlazione con la cosiddetta “Operazione Militare Speciale”, poiché viene usata dal Cremlino per cercare di giustificare e legittimare la sua aggressione contro l’Ucraina. Inoltre, l’edizione di quest’anno è particolarmente rilevante, non solo perché si celebra l’ottantesima edizione, ma anche per la presenza di leader stranieri alle manifestazioni organizzate a Mosca: dal presidente cinese Xi Jinping al leader brasiliano Ignacio Lula da Silva, fino al premier slovacco Robert Fico, rappresentante di un Paese dell’Unione Europea. Il fatto che queste personalità abbiano deciso di recarsi a Mosca in occasione della parata del 9 maggio segna il desiderio di riscatto di Putin, che vuole mostrare come, a tre anni dall’invasione dell’Ucraina, la Russia non sia affatto isolata.

Tra i leader menzionati c’è anche Xi, che proprio l’altro giorno ha pubblicato su un quotidiano di proprietà del governo russo un editoriale che sottolinea l’amicizia e la vicinanza tra Russia e Cina. Ma quanto è solida questa vicinanza?

È solida dal punto di vista del legame politico e del desiderio condiviso di mandare un messaggio alle potenze occidentali, in primis agli Stati Uniti. Soprattutto in un momento in cui la Russia sta dialogando con gli Stati Uniti di Trump, anche se rimane un antagonismo molto forte. Per Cina e Russia il messaggio è quello di combattere contro l’interferenza e l’imperialismo normativo occidentale: a livello di messaggi politici, poco è cambiato dall’insediamento della seconda amministrazione Trump. Il messaggio politico di opposizione all’Occidente è forte ed è un collante importante tra i due Paesi. Anche dal punto di vista economico il legame rimane molto solido, sebbene sbilanciato: per la Russia, la Cina è ormai il primo partner commerciale. E l’economia e la politica si fondono. Non a caso Mosca ha cominciato a guardare più seriamente a Est già dal 2014, in seguito all’imposizione delle sanzioni occidentali dopo l’annessione della Crimea. Mosca stessa ha incentivato questo avvicinamento economico, un po’ per dimostrare all’Occidente di avere delle alternative, un po’ per cercare di controbilanciare gli effetti delle sanzioni. Come sappiamo, però, si tratta di un rapporto sbilanciato, e non tutti i piani del Cremlino vengono poi realizzati. Penso ad esempio a Power of Siberia II, il gasdotto che nei piani russi doveva essere il punto di svolta per trasformare l’architettura di export del gas russo in direzione della Cina. Come possiamo vedere, questa svolta non si è ancora concretizzata, e ciò dimostra che esistono limiti, sia politici che economici, in questa relazione. Ma resta comunque un rapporto molto importante, tanto per Mosca quanto per Pechino.

Il riavvicinamento con Trump è portato avanti in buona fede o una mossa tattica dettata dal cinismo politico?

Personalmente, credo che il Cremlino stia cinicamente sfruttando l’urgenza di Trump di arrivare a una pace a tutti i costi, per adempiere alle promesse fatte in campagna elettorale, dove aveva previsto delle tempistiche alquanto surreali. Putin sa di avere negli Stati Uniti un Paese che potrebbe imporre all’Ucraina condizioni svantaggiose pur di arrivare alla pace, e sta sfruttando questa situazione. Parallelamente, il Cremlino manda messaggi contraddittori. Basti pensare alle tregue unilaterali a breve termine indette da Mosca, mentre ha rifiutato la proposta di tregua di trenta giorni avanzata da Washington e accettata da Kyiv. Non so quanto a lungo Putin potrà continuare con questi tatticismi nei confronti di Trump, un leader molto volitivo che sembra già spazientito dalla Russia. Proseguire con questo approccio potrebbe rivelarsi pericoloso, ma Putin crede di poterselo permettere perché sa che per gli Stati Uniti guidati da Trump il raggiungimento di una pace “giusta” non è una priorità.

Come vede le prospettive del conflitto in Ucraina e le possibilità del raggiungimento di una tregua?

Sfortunatamente, sono basse. Si stanno toccando proprio le motivazioni principali di questa guerra. Un cessate il fuoco può funzionare solo se esiste un minimo grado di fiducia, e in questo contesto quella fiducia minima che rende credibile una tregua tra Russia e Ucraina semplicemente non esiste. Per questo sono molto scettica sui piani americani. Aggiungiamo che il desiderio dell’amministrazione Trump è quello di promuovere una mediazione neutrale, ma allo stesso tempo sappiamo che per gli Stati Uniti non è fondamentale arrivare a una pace giusta e sostenibile, quanto piuttosto raggiungere una conclusione — anche provvisoria — della guerra. E questo, secondo me, è pericoloso. Questo conflitto va avanti dal 2014, ha attraversato molte fasi e visto due accordi di pace falliti. È un conflitto molto complesso, che non riesce a trovare una risoluzione anche perché manca il giusto atteggiamento da parte dello Stato terzo che più potrebbe influire: gli Stati Uniti.

Nelle dinamiche da lei delineate, qual è il ruolo dell’Europa?

L’Europa non è un possibile mediatore, per due ragioni. La prima riguarda anche gli Stati Uniti, almeno parzialmente: sia l’Ue che gli Usa si sono schierati apertamente al fianco dell’Ucraina durante l’amministrazione precedente, e per svolgere il ruolo di mediatore servono rapporti neutrali — se non positivi — con entrambe le parti. Un attore simile potrebbe essere, ad esempio, la Turchia, ma non l’Unione Europea. La seconda ragione è l’assenza, da parte russa, di un riconoscimento dell’Ue come attore importante e credibile. Non a caso, il Cremlino ha sempre preferito interfacciarsi con i singoli Stati piuttosto che con le istituzioni europee. Il combinato disposto di questi due fattori rende molto difficile per l’Ue assumere un ruolo netto nel processo di mediazione.

Ritiene credibile quanto affermato dalla stessa Ucraina, ma non solo, riguardo all’intenzione di Mosca di poter attaccare altri Paesi dell’Est Europa nel breve-medio termine?

Secondo me c’è un’ambivalenza di fondo e una contraddizione nella narrazione ucraina. Da un lato si afferma che l’unico modo per assicurare la deterrenza contro la Russia è l’adesione di Kyiv alla Nato, grazie all’Articolo 5. Dall’altro si sostiene che Mosca è pronta ad attaccare direttamente altri Paesi europei, inclusi membri della Nato come i Baltici, che sono già protetti proprio da quell’Articolo 5. Quindi da un lato si dice che l’Articolo 5 è un deterrente, dall’altro si paventa che, anche con esso in vigore, la Russia attaccherà comunque. Personalmente, credo che Putin non attaccherebbe mai un membro della Nato, a meno che non si verifichi un sostanziale svuotamento dell’Articolo 5. Un evento simile potrebbe essere, ad esempio, l’uscita degli Stati Uniti dall’Alleanza Atlantica. Ma finché l’Articolo 5 rimane “credibile”, non vedo margini per un attacco diretto a un Paese membro. Anche perché, già da anni, il Cremlino interferisce con la sicurezza dei membri della Nato attraverso operazioni di guerra non lineare, dai cyberattacchi alla disinformazione. Non credo che al momento la Russia possa, o voglia, spingersi oltre nei confronti dei membri dell’Alleanza

 


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