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Perché è troppo presto per parlare di crisi del dollaro. L’analisi di Zecchini

Oggi appare prematuro parlare di crisi del dollaro, ma non si può escludere che le misure di Trump erodano la fiducia nel dollaro come principale punto di riferimento nel sistema internazionale. L’analisi di Salvatore Zecchini

La sconvolgente condotta economica del presidente Trump ha riportato l’attenzione degli ambienti economici e finanziari sull’esistenza o meno di una crisi del dollaro. A tale domanda rivolta da ultimo a esperti ed ex ministri italiani in un incontro, la risposta è stata che siamo di fronte alla crisi del dollaro e quindi bisogna pensare a una riforma del sistema monetario internazionale. Indubbiamente i dati più recenti sullo stato dell’economia americana e sull’andamento dall’inizio dell’anno del bilancio federale, della bilancia corrente con l’estero, dei tassi sui Treasuries e del tasso di cambio fanno sorgere inquietudini tra gli investitori.

La crescita reale è in rallentamento dal quarto trimestre dell’anno scorso, benché la decrescita del primo trimestre dell’anno corrente sia dovuta al gonfiamento delle importazioni in anticipazione dei dazi penalizzanti introdotti ad inizio aprile. La spesa per consumi ed investimenti, che aveva tenuto nel primo trimestre, appare tuttavia in affanno a causa dell’incertezza sulle prospettive di inflazione ed occupazione a seguito della rottura di consolidate relazioni commerciali con l’estero prodotte dall’impennata delle tariffe doganali. In rosso la bilancia commerciale, che l’anno scorso si era chiusa con un disavanzo di 1,13 trilioni (3,36% del Pil) e con uno ancora peggiore la bilancia delle partite correnti (4,1%).  Ben più profondo il disavanzo del bilancio federale, che era aumentato al 6,2% del Pil nel 2024. Quest’anno tende a dilatarsi oltre il 7%, col risultato di portare il debito pubblico oltre il 121,85% raggiunto nel quarto trimestre del 2024. Nel 2019, prima della pandemia del Covid, si attestava al 106%.

Rallentamento economico, rischi d’inflazione in ascesa e prospettive di crescenti squilibri nei conti pubblici e in quelli con l’estero non potevano che riflettersi nella percezione di una maggiore rischiosità dell’investire nell’economia americana. La borsa ha reagito con ampie oscillazioni dei valori azionari e dei rendimenti dei titoli del Tesoro a 10 anni. Questi ultimi dal picco di 4,8% di metà gennaio sono scesi al minimo dell’anno (4,01%) il 4 aprile per risalire negli ultimi giorni in prossimità del 5%. Analoga variabilità nel valore esterno del dollaro: rispetto all’inizio dell’anno si è deprezzato del 7,2% verso un paniere di principali valute e di ben l’11% verso l’euro.

Ma bastano questi segnali per sfiduciare il dollaro? Quando si può parlare di crisi del dollaro? Dal 1971 con la fine della convertibilità aurea del dollaro a cui erano ancorate le monete (il gold exchange standard), si è instaurato un regime di fluttuazione dei tassi di cambio senza un ancoraggio predeterminato, eccetto nei casi di politiche di fluttuazione congiunta (pegging). La solidità di una moneta, pertanto, non si misura più sul suo valore esterno né in oro, né in un’altra valuta, ma sulle capacità di mantenere la stabilità interna dei prezzi, di preservare l’equilibrio macroeconomico nella crescita e di convertibilità nel tempo in altre valute solide. In questo ambito la partecipazione ai commerci internazionali, l’apertura del mercato dei capitali e il non-coinvolgimento in tensioni geopolitiche hanno un particolare peso.

Queste caratteristiche non sono, tuttavia, sufficienti a spiegare la forza del dollaro come valuta di riserva, né il perché sia rimasto come punto di riferimento nel sistema monetario internazionale anche in regime di cambi flessibili, tanto da determinare di fatto un “dollar standard” in alcuni periodi. Alla base del ruolo del dollaro stanno diversi fattori attualmente non presenti congiuntamente per altre divise. Innanzitutto il fatto di poggiare su una economia che rivaleggia con quella cinese come la più grande economica del mondo e in grado di esprimere un potenziale di espansione anche nel futuro. Un’economia resiliente nelle fasi avverse del ciclo economico, animata da uno spirito di imprenditorialità ed innovazione tra i più vivaci al mondo e che primeggia nei campi della ricerca e delle sue applicazioni. I risultati sono evidenti nel progredire della produttività, che pur accusa un notevole rallentamento rispetto al passato, e nell’elevato livello di reddito pro-capite e di capacità di spesa.

Ugualmente importante è la forza militare di cui il paese si è dotato e che ne fanno una potenza globale in grado di intervenire in ogni scacchiere geografico del mondo. Una potenza che, accompagnata alla grandezza dell’economia e dei suoi mercati finanziari e commerciali, ne fa un attore molto influente nei negoziati internazionali. Non esercita più quel ruolo egemone che aveva ereditato dalla supremazia nella Seconda Guerra Mondiale, perché altre potenze sono venute alla ribalta. Tuttavia, esercita un ruolo condizionante nelle principali contese che insorgono.

In particolare, l’accesso al suo mercato dei capitali, le innovazioni finanziarie che produce e che sostengono anche le iniziative imprenditoriali più rischiose, e le notevoli opportunità offerte ai produttori stranieri di competere sul suo mercato sono leve cruciali per far valere i suoi interessi nella governance mondiale. Anche la fiducia nelle sue istituzioni democratiche contribuisce a indirizzare consistenti flussi di capitali esteri verso l’investimento nei titoli americani.

A questi punti di forza si contrappongono due principali fattori di debolezza che hanno assunto un peso importante negli ultimi anni, ovvero l’aggravarsi dello squilibrio nella finanza federale e le radicali misure adottate dalla nuova Presidenza in tre mesi. Queste mirano a rovesciare assetti e valori istituzionali che sono alla base della costruzione democratica e della crescita economica. Sul primo versante, al posto di una strategia credibile di rientro dai disavanzi si programma la prosecuzione dei tagli alle imposte, specialmente ai soggetti a maggior reddito, mentre non si riesce a comprimere la spesa. Di conseguenza il disavanzo federale per il prossimo esercizio tenderebbe verso il 9% del Pil e il debito oltre il 122%, con un aggravio della spesa per interessi già al 18%. Su questo sfondo non sorprende che Moody’s abbia declassato il debito americano un gradino sotto il top.

Sul versante istituzionale, i provvedimenti presi in tutta fretta senza passare per l’approvazione parlamentare, diretti a respingere gli immigrati illegali, espellere quelli che hanno acquisito la cittadinanza secondo lo ius soli sancito dalla Costituzione, tagliare i finanziamenti ai più importanti centri di ricerca, rendere più difficile l’ingresso di studenti e ricercatori stranieri, limitare la libertà di opinione ed incrinare la coesione dell’Alleanza Atlantica gettano grandi ombre su alcuni capisaldi su cui è stata edificata la potenza americana. Nel campo della libertà degli scambi commerciali, l’uso ricattatorio della leva dei dazi per frenare la concorrenza estera ed ottenere accordi di favore tende a frazionare il mercato mondiale e deprimere l’espansione economica di vaste aree.

Malgrado l’erosione in corso di alcuni punti di forza, il dollaro offre agli operatori economici indubbi vantaggi non disponibili con altre monete. È la moneta in cui sono denominati gli scambi commerciali con gli Usa e le quotazioni delle principali materie prime, nonché dell’energia e dei prodotti agricoli primari. Funge da passaggio per attingere al maggior mercato dei capitali del mondo ed è collegato a un avanzato sistema di pagamenti internazionali che non ha alternative altrettanto funzionali. Soprattutto, la fiducia nel dollaro poggia sul ruolo della Fed, ossia sulla sua indipendenza e capacità di condurre una politica monetaria orientata alla stabilità dei prezzi, senza trascurare l’esigenza di contribuire alla crescita dell’economia. Ha mostrato, ad esempio, di saper piegare l’inflazione del periodo post-Covid, non a detrimento dell’espansione del reddito nazionale. Motivo di fiducia è pure il ruolo della Fed nell’assicurare la solidità del sistema bancario americano, intervenendo in via sia preventiva, sia di risanamento nei casi di crisi.

Nessuna delle altre monete concorrenti è attualmente in grado di fornire altrettanto. L’economia dell’euro ha alle sue basi una dipendenza critica dal commercio con l’estero, manca di un mercato dei capitali unificato, di un’unione bancaria, di una robusta crescita economica, di una governance politica e macroeconomica unitaria e di titoli pubblici “sicuri”, dotati di garanzia condivisa tra tutti i membri, eccetto che per alcune emissioni limitate. Lo Yuan cinese è privo dei requisiti di convertibilità esterna e di apertura del mercato dei capitali. Lo yen giapponese e la sterlina britannica non hanno alle spalle economie di dimensioni e forza economiche sufficientemente ampie da fornire vantaggi comparabili al dollaro. Il franco svizzero svolge essenzialmente la funzione di moneta rifugio, al riparo da tensioni e inflazione.

A favore del dollaro gioca altresì l’aver superato con minori danni rispetto ai concorrenti la crisi finanziaria globale del 2007-2008 e gli episodi di recessione economica incontrati dal secondo dopoguerra mondiale. D’altronde, le attuali vulnerabilità possono aver carattere transitorio, legate all’attuale fase politica americana e superabili quando la nuova amministrazione dovrà ritornare sui suoi passi inquietanti di fronte all’evidenza dei costi derivanti dagli sconvolgimenti indotti.

Al fondo di molte discussioni sulle prospettive di crisi del dollaro, peraltro, si staglia un problema definitorio. Per stabilire l’esistenza di uno stato di crisi è necessario osservare una generalizzata tendenza alla fuga da questa moneta per spostarsi su altre o su beni rifugio. Ovviamente in un sistema di cambi fluttuanti in cui sono emerse nuove potenze economiche si è assistito a un processo di diversificazione delle riserve di liquidità internazionale detenute dalle banche centrali. L’espandersi delle quote di riserve auree e il rialzo notevole delle sue quotazioni assieme all’incremento di valute alternative nei portafogli delle banche centrali sono una prova.

Ancora nel 2024 la componente dollaro nei portafogli delle autorità monetarie rimaneva la più consistente (57,8%), ma in calo pressoché continuo dal 2015 (67,73%) e ancor più rispetto al 2001 (71,51%). Segue a grande distanza l’euro col 19,83%, che non sembra aver guadagnato terreno dal ridimensionamento del dollaro, in quanto ha ceduto lentamente dal massimo del 27,7% nel 2009. In espansione, invece, la quota dello yen salita al 5,8%, in contrasto con la relativa stabilità di quella della sterlina, che ha gravitato attorno al 4%. Minime le riserve in renminbi cinese (2,18%), aumentate soltanto di un punto negli ultimi otto anni, e le riserve in franchi svizzeri (0,17%). La componente aurea ha dal canto suo un peso modesto ed è detenuta principalmente dagli Usa, seguiti da Germania, Italia e Francia.

Da questi andamenti non è possibile dedurre una crescente sfiducia nel dollaro e nelle politiche monetarie e di bilancio americane. Piuttosto un ribilanciamento dei rischi, che rispecchia ancora limitatamente il cambiamento dei pesi nazionali nel prodotto mondiale. L’andamento tendenziale del deficit di bilancio e del debito federale americani continua a rappresentare un rischio che i mercati monitorano strettamente. Né sono di aiuto le proposte avanzate da alcune parti di ricorrere all’emissione di stablecoins per finanziare il deficit di bilancio. Il presidente Trump già dai primi giorni del suo mandato ha emesso un ordine alle agenzie federali di promuovere mediante una adeguata regolamentazione l’uso di questa cryptoasset con un sottostante in dollari. Questi titoli in realtà comportano rischi per la stabilità monetaria, accanto a vantaggi sul piano della negoziazione. Si può pertanto concludere che è prematuro parlare di crisi del dollaro, ma non si può escludere che le misure di Trump erodano la fiducia nel dollaro come principale punto di riferimento nel sistema internazionale.


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