Nonostante la narrativa del declino, l’Occidente resta il blocco più ricco e organizzato del pianeta. I suoi valori fondanti sono anche il suo scudo geopolitico. Ma serve maggiore consapevolezza per affrontare sfide come la Cina, la Russia e l’Iran. L’analisi di Gianfranco Polillo
Fino a che punto l’Occidente è consapevole della propria forza? Forza economica e finanziaria, ma anche militare: essendo i diversi elementi del puzzle geopolitico fortemente integrati, almeno da un punto di vista strategico. Nell’immediato, infatti, Paesi meno forti, come la Corea del Nord, l’Iran o la stessa Russia possono intimorire. Ma poi il tempo si dimostra galantuomo, sempre che l’Occidente dimostri di essere in grado di non cedere alla paura. Sembrerebbe quindi, come ha detto recentemente il cardinal Bagnasco che “con la fede, l’Occidente perde anche la ragione”. Forse la ragione no, ma la lucidità è possibile. Se Putin fosse stato più lungimirante, e l’Occidente più presente, probabilmente avrebbe ricercato soluzioni alternative all’invasione dell’Ucraina. Di certo non l’avrebbe chiamata “operazione militare speciale”, considerata la lunghezza temporale (tre anni) del conflitto.
Bisogna partire da qui per capire cosa stia realmente accadendo. Veramente l’Occidente è destinato a soccombere nel confronto con i suoi competitor? O questi ultimi non stanno vendendo la pelle dell’orso, prima di averlo ucciso? E poi veramente la crescita della Cina è così inarrestabile da determinare un sommovimento così profondo negli equilibri mondiali? Fosse così dovremmo rivalutare il pensiero del Presidente Mao, quando sosteneva che alla fine le campagne avrebbero assediato le città, fino ad espugnarle. Ma, per fortuna, questo traguardo è ancora ben lontano dall’essere realistico.
Quando si pensa all’Occidente il primo problema da risolvere è di tipo definitorio. Quali sono gli elementi che lo caratterizzano? Risposta facile, ma anche fin troppo generica: la sua storia complessiva, quel sistema di valori che ne hanno caratterizzato la lunga evoluzione, il principio di libertà e le varie forme di democrazia. Tutto vero. Esiste, tuttavia, un dato meno sfuggente. L’Occidente è innanzitutto “economia di mercato”. Quella base materiale che ha poi consentito lo sviluppo di tutti gli altri elementi di cui si discuteva in precedenza.
Economia di mercato contro collettivismo. Una vecchia distinzione che dopo l’89 sembrava quasi aver perso ogni significato. Ma che oggi ritorna prepotente. Dopo la Global Financial Crisis del 2007/2008 infatti la Russia di Putin ha definitivamente rimosso ogni possibile apertura verso il libero mercato, per tuffarsi nella riscoperta di un nazionalismo dalle tinte imperiali. E qualcosa di analogo, seppur nella diversità delle relative culture, è avvenuto in Cina, dove il Partito ha nuovamente preteso di esercitare quel ruolo dirigista, al quale in passato aveva abdicato, che è la negazione stessa del libero mercato.
Non è quindi un caso se il perimetro dell’Occidente coincida in larghissima misura con quell’aggregato macro rappresentato dal complesso delle economie avanzate. Si tratta, secondo la classificazione del Fondo monetario internazionale, di 41 Paesi sui 155 censiti (26% del totale), dislocati soprattutto in America del Nord, Europa, nell’Oceano Pacifico ed in alcune zone del Far East asiatico. Il relativo 80 per cento (33 su 41) non solo presenta le affinità elettive di cui si diceva in precedenza, ma fa parte del sistema difensivo occidentale.
I Paesi europei sono la maggioranza: 22 su 32. Il loro peso, in termini di reddito, è progressivamente sceso, passando dal 44% del 1980 al 37% del 2024. Gli altri 10 sono invece cresciuti. La massima espansione in termini di reddito si è avuto nell’ordine in: Israele, Taiwan, Repubblica di Corea e Singapore. Gli Stati Uniti, dal canto loro hanno perso delle posizioni, anche se in misura minore rispetto ai cugini europei. Colpa della globalizzazione? Attenti a non confondere le cause con gli effetti. Come predica da tempo il Fondo monetario, quei mutamenti sono stati essenzialmente conseguenza della forza intrinseca del progresso tecnologico e dell’automazione. Ed anche – è bene aggiungere sulla scorta delle vecchie esortazioni della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo – di un pizzico di divina provvidenza che ha, almeno in parte favorito i vecchi “dannati della Terra”.
Da soli, questo primo gruppo di Paesi rappresentava, lo scorso anno, il 40 per cento del reddito mondiale. Negli anni era ovviamente calato, ma solo perché si partiva da un tasso particolarmente elevato: pari, nel 1980, al 65 per cento del prodotto interno mondiale. Ci sono poi gli altri Paesi che formano la galassia legata all’Occidente. Paesi che appartengono al più vasto mondo delle economie emergenti. Alcuni di questi fanno parte anche dei Brics, ma questa commistione non deve sorprendere. Da un lato è infatti il peso di alleanze militari, specie con gli Usa e la Gran Bretagna. Dall’altro un aggregato variegato, come nel caso dei Brics: più luogo di discussione che non di iniziativa politica.
Le economie emergenti che fanno parte del sistema di difesa occidentale sono sedici. Alcune come l’Albania, la Bulgaria, l’Ungheria, il Montenegro, la Macedonia del Nord, la Polonia, la Romania o la Turchia fanno parte della Nato. Altre, come il Bahrein, il Kuwait, l’Oman, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, sono membri del Consiglio di cooperazione del Golfo la cui leadership spetta all’Arabia Saudita. A parte sono poi la Giordania e l’India. Ad unire i vari segmenti sono diversi Trattati di difesa: come l’Aukus (Australian, New Zealand, United States Security Treaty), oppure il Quad (Quadrilateral Security Dialogue) costituito tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti. Successivamente esteso anche al Canada.
Esiste poi il tema più spinoso delle basi militari. A partire da quella di Gibuti, nel Golfo di Aden, la parte sud del Canale di Suez. Nel Qatar ha sede il comando americano per il Medio Oriente (Centcom). La sede della V flotta è a Manama, in Bahrein. In Kuwait le basi di Camp Buehring, di Campo Arifjan e Camp Patriot. La struttura politica che sovrintende all’intero sistema è data, come detto in precedenza, dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il sostegno militare americano è soprattutto in funzione anti-Iran. Nel Pacifico, invece, la presenza americana è garantita prevalentemente dalla base di Guam, nell’Arcipelago delle Marianne, quindi dalle basi militari collocate in Giappone, dove ha sede la VII flotta e nella Corea del Sud, che ospita, a Camp Humphrey, la più grande base militare americana all’estero.
Diversi trattati hanno formalizzato i relativi rapporti. Come quelli con la Corea del Sud, nell’eventualità di un’aggressione da parte di Pyongyang. Così pure come l’accordo Usa – Israele, in difesa dello Stato ebraico in caso di attacco da parte dei suoi nemici. Specie da parte dell’Iran. Altro accordo è con la Giordania, alla quale gli Stati Uniti forniscono supporto logistico nella lotta contro i gruppi estremistici. L’Us-Taiwan Relations Act, infine, mira a contrastare le mire aggressive della Cina, nei confronti di Taiwan.
Fin qui una presenza diretta delle forze armate americane. In una serie di altri casi, invece, gli Stati Uniti garantiscono solo un intervento indiretto. Come nel caso del Fpda (Five Power Defence Arrangements): l’accordo di sicurezza tra Singapore, Malesia, Australia, Regno Unito e Nuova Zelanda. Oppure del Nordefco (Nordic Defence Cooperation) tra Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia, per contenere la pressione russa sull’Artico.
A fronte di una struttura così complessa, si contrappone ciò che resta del vecchio mondo comunista. Con il suo sistema di alleanze militari più che contenuto. Da un lato, infatti, è la Cina, potenza tuttavia solitaria. Forte da un punto di vista economico e finanziario. Ma con scarso appeal nei confronti degli altri Paesi. Basti pensare al Vietnam, che soffre più che gioire della vicinanza cinese, sebbene le affinità ideologiche tra i due Paesi siano più che evidenti. E lo stesso Vietnam debba molto al sostegno avuto dal “ campo socialista”, nella sua guerra di indipendenza contro i francesi prima e gli americani poi.
Il caso della Russia è, invece, diverso. I suoi punti di forza sono la Corea del Nord, nei confronti della quale è stato stipulato un vero e proprio trattato di mutua assistenza sul piano militare. Resta poi il rapporto con l’Iran e la galassia delle forze sciite che nel Medio Oriente combatte contro Israele. Rapporti, comunque, tutt’altro che stabili. La Siria, una volta principale roccaforte russa nel Mediterraneo, dopo l’abbattimento del vecchio regime di Bashar al-Assad, sembra essere intenzionata a sottoscrivere gli accordi di Abramo, che sono agli antipodi di quella vecchia alleanza. Un cambiamento destinato a mettere in discussione l’esistenza di due vecchie basi militari (Tartus e Khmeimim) che ancora appartengono alla Russia.
Sarà uno smacco per Putin, ma non l’unico. All’indomani della caduta del muro di Berlino, nella foresta di Bialowieza, a 50 chilometri da Brest, in Bielorussia, veniva stipulato l’accordo tra la Russia, l’Ucraina e la Bielorussia che avrebbe portato alla costituzione della Csi (Comunità degli Stati Indipendenti). Un mix tra il Comecon e il Patto di Varsavia, (Organizzazione del Trattato di sicurezza Collettivo) seppure in formato ridotto, al quale avrebbero successivamente aderito altre otto ex Repubbliche sovietiche: Armenia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan. Ultimo arrivato, a distanza di un anno, la Georgia. Nel 2024 il loro complesso, senza considerare la Russia, avrebbe pesato sull’economia mondiale per l’1,54 del Pil globale.
Avrebbe, se nel frattempo, quell’alleanza economica – militare non si fosse completamente sfaldata. Fuori ovviamente l’’Ucraina, che insieme al Turkmenistan, non aveva ratificato lo statuto della Csi. Nel 1999 il Trattato di sicurezza fu rinnovato per altri 5 anni, ma solo con la partecipazione di 5 Stati, oltre la Russia: Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, e Tagikistan. Negli anni successivi (il 2006) la Georgia, sempre più vicina all’Occidente, decise addirittura di abbandonare la Comunità, anche a costo di dover subire, con la successiva invasione da parte della Russia, la perdita delle due regioni di Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.
Con il passar del tempo, tuttavia, i fermenti indipendentisti degli Stati, che ancora facevano parte del Trattato, diventavano sempre più evidenti. Sul piano economico e finanziario si tentava di allentare il rapporto di dipendenza con Mosca, guardando sia ad Occidente che verso la Cina. Non si dimentichi, infatti, che la proiezione cinese verso occidente, grazie alla costruzione della “One Belt One Road”, passa proprio attraverso quei territori. Per cui le conseguenze politiche non tardarono a manifestarsi. In occasione del voto dell’Onu contro l’invasione da parte della Russia nei confronti dell’Ucraina, le astensioni o mancata partecipazione al voto da parte dei “fedelissimi” di Mosca fu generalizzata. Al punto da spingere lo stesso Lukashenko, capo indiscusso della Bielorussia e scudiero di Vladimir Putin, a resistere di fronte alle pressioni di Mosca per giungere ad una più stretta unificazione dei due Paesi.
Questo quindi il quadro analitico che descrive l’equilibrio geopolitico raggiunto tra l’Occidente ed i suoi nemici. Da un lato una maggioranza di Stati, che rappresenta ancora, nonostante il décalage subito, il 52,2% del Pil mondiale, (2024). Dall’altra i nemici storici dell’Occidente, la cui consistenza si ferma ad un 24,1 %. Differenza destinata ad aumentare se il termine di paragone divenisse il semplice Pil nominale, non tenendo conto della diversità del potere di acquisto. Tutto bene, allora? Fino ad un certo punto. Finora il peso prevalente dell’onere legato al mantenimento di questo equilibrio è gravato sugli Usa. Che, per quanto forti e potenti, non sono più in grado di farvi fronte. Il problema di un riequilibrio diventa pertanto inevitabile.
Gli alleati dovranno contribuire maggiormente al costo di quell’apparato apparato difensivo che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, pur con errori e contraddizioni, ha consentito all’Occidente di sopravvivere ed evitare conflitti ancora più devastanti. Al maggior contributo, tuttavia, non potrà che accompagnarsi una condivisione maggiore nelle relative scelte. Si dovrà passare, per così dire, da una monarchia assoluta, per quanto illuminata, ad una struttura più democratica. Dove il peso di ciascun attore rifletterà anche l’onere sostenuto per garantire una pace che non sarà “perpetua”, come auspicava Emmanuel Kant, ma metterà almeno fine ai grandi crimini contro l’umanità, di cui le cronache di quest’ultimi anni, sono state purtroppo tragica testimonianza.