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Tap, la vittoria del buonsenso. Il commento di Arditti

La guerra a Tap è stata un caso da manuale di come l’ideologia possa offuscare il buonsenso. In un mondo in cui l’energia è una questione di sopravvivenza geopolitica, dire “no” a un’infrastruttura strategica, senza proporre alternative credibili, è un lusso che non possiamo permetterci. Il commento di Roberto Arditti

Il 12 maggio 2025, il Tribunale di Lecce ha messo la parola fine a una vicenda che, per anni, ha tenuto banco in Puglia e non solo: tutti assolti, società Tap e 18 imputati, tra cui i vertici del management, accusati a vario titolo di deturpamento di bellezze naturali, danneggiamento, violazione edilizia e inquinamento ambientale. Una sentenza che non solo chiude un capitolo giudiziario, ma sancisce una verità evidente: la guerra al Trans Adriatic Pipeline (Tap) è stata un esercizio di pura follia, un mix di ideologia, disinformazione e miopia strategica che ha rischiato di danneggiare l’Italia intera. Proviamo a ricostruire, numeri alla mano, perché opporsi a questa infrastruttura energetica è stato un errore clamoroso.

Un’infrastruttura strategica per l’Europa

Partiamo dai fatti. Tap è l’ultimo tassello del Corridoio Meridionale del Gas, un progetto da oltre 50 miliardi di dollari che collega il giacimento di Shah Deniz, nel Mar Caspio, all’Europa attraverso 4.000 chilometri di gasdotti, attraversando sette paesi. In Italia, Tap approda a Melendugno, in Salento, con un tratto terrestre di appena 8 chilometri e un terminale di ricezione grande come una dozzina di campi da calcio. La sua capacità? 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno, con un potenziale di raddoppio a 20 miliardi, pari a circa un quarto del fabbisogno italiano. Numeri che, in un mondo normale, farebbero gridare al miracolo, non alla protesta.

Eppure, dal 2017, il Salento è stato teatro di una crociata contro Tap, guidata da comitati locali, pezzi del Movimento 5 Stelle e persino il governatore pugliese Michele Emiliano. Le accuse? Impatto ambientale devastante, rischio per il turismo, espianto di ulivi (circa 200, temporaneamente spostati e poi ripiantati). Ma la sentenza di Lecce smonta tutto: non c’è stato inquinamento, non c’è stato deturpamento, non ci sono stati reati. Il “fatto non sussiste”, come hanno scritto i giudici, e alcuni reati sono addirittura prescritti. Tradotto: le denunce erano, nella migliore delle ipotesi, esagerate; nella peggiore, strumentali.

La geopolitica non aspetta i comitati

Perché opporsi a Tap è stata follia? Basta guardare il contesto geopolitico. Nel 2020, quando il gasdotto è entrato in funzione, l’Italia importava circa 70 miliardi di metri cubi di gas all’anno, di cui oltre il 40% dalla Russia. La guerra in Ucraina, iniziata nel 2022, ha fatto esplodere la crisi energetica, con il prezzo del gas schizzato a livelli insostenibili e l’Europa costretta a correre ai ripari. TAP, in questo scenario, si è rivelato una benedizione: nel 2024, ha trasportato quasi 8 miliardi di metri cubi di gas dall’Azerbaigian, contribuendo a ridurre la dipendenza da Mosca. Il governo, non a caso, ha già pianificato un aumento della capacità a 11,5 miliardi entro il 2026 e un potenziale raddoppio entro il 2030, come annunciato dall’ex ministro Cingolani.

Chi si opponeva a Tap, in nome di un ambientalismo astratto, ignorava una realtà brutale: senza alternative al gas russo, l’Italia avrebbe rischiato blackout e un collasso economico. E la Puglia? Proprio la regione che gridava “No Tap” è oggi al centro della strategia energetica nazionale, con progetti per parchi eolici offshore e il gasdotto EastMed-Poseidon, che porterà gas dal Mediterraneo orientale a Otranto. Ironia della sorte: mentre si protestava contro 8 chilometri di tubi a Melendugno, la Puglia si candidava a diventare un hub energetico europeo.

L’impatto locale: miti e realtà

Ma veniamo al cuore delle proteste: l’impatto sul territorio. I “No Tap” dipingevano il gasdotto come un mostro ecologico, pronto a devastare spiagge, ulivi e turismo. La realtà, come confermato dal Tribunale, è ben diversa. Il terminale di ricezione a San Foca non produce emissioni significative: il gas non viene lavorato né stoccato, e le uniche emissioni derivano da un occasionale riscaldamento per regolare la pressione, una frazione trascurabile rispetto a quelle del comune di Melendugno. Gli ulivi espiantati? Temporaneamente spostati e ripiantati, senza alcun danno permanente. Il turismo? Le spiagge del Salento continuano a essere tra le più amate d’Italia, senza che TAP abbia minimamente scalfito il loro appeal.

E poi c’è la questione delle alternative. Emiliano e i sindaci locali proponevano di spostare l’approdo a Brindisi o Squinzano, aree industriali già infrastrutturate. Peccato che studi tecnici, condotti già nel 2013, avessero scartato queste opzioni per motivi logistici e ambientali, come la presenza di fondali più profondi o vincoli urbanistici. Spostare l’approdo avrebbe comportato ritardi di anni e costi aggiuntivi di centinaia di milioni, a carico dei contribuenti. Il Consiglio di Stato, nel 2017, aveva già bocciato i ricorsi della Regione, e la Corte Costituzionale aveva confermato la legittimità del progetto. Eppure, la battaglia è andata avanti, tra blocchi stradali, scontri con la polizia e tre maxiprocessi contro gli attivisti, conclusi con condanne pesanti per reati come danneggiamento e resistenza.

Il costo della miopia

Opporsi a Tap non è stato solo inutile, ma dannoso. I ritardi nei lavori, causati da proteste e ricorsi, hanno rallentato l’entrata in funzione del gasdotto, costando all’Italia milioni in penali e opportunità mancate. Nel frattempo, i Comuni di Melendugno e Vernole, inizialmente in prima linea contro Tap, hanno firmato un accordo con la società pochi giorni prima della sentenza, ottenendo ristori per 6 e 2 milioni di euro. Un’ammissione implicita: il gasdotto non era il diavolo, e i benefici economici sono concreti.

La morale? La guerra a Tap è stata un caso da manuale di come l’ideologia possa offuscare il buonsenso. In un mondo in cui l’energia è una questione di sopravvivenza geopolitica, dire “no” a un’infrastruttura strategica, senza proporre alternative credibili, è un lusso che non possiamo permetterci. La Puglia, con le sue contraddizioni, lo ha capito a sue spese: oggi accoglie parchi eolici e sogna un futuro da hub energetico, ma ha perso anni a combattere una battaglia sbagliata. La sentenza di Lecce non è solo una vittoria per Tap, ma un monito per tutti: il progresso non si ferma con i cartelli di protesta.


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