La guerra attorno a Israele continua. L’evoluzione sul fronte yemenita vede delle incertezze e delle opportunità, mentre Israele spinge su più livelli per proteggere la propria sicurezza nazionale. “Resta uno scenario convulso e caotico, dovremmo spingere la diplomazia anziché depauperarla per soluzioni rapide, che rischiano di frammentare ulteriormente il quadro regionale e internazionale”, spiega Dentice (OsMed)
La decisione improvvisa del presidente Donald Trump di sospendere tutte le operazioni militari statunitensi contro i ribelli Houthi nello Yemen — “con effetto immediato” — aggiunge un ulteriore elemento al già complesso panorama strategico che circonda Israele. L’annuncio, frutto di una mediazione silenziosa condotta attraverso l’Oman e con un ruolo centrale del super inviato Steve Witkoff (attivo su Ucraina, Gaza e adesso Mar Rosso), è stato presentato dalla Casa Bianca come un successo diplomatico: secondo Trump, gli Houthi “non vogliono più combattere” e avrebbero di fatto “capitolato”. Secondo fonti informate, Washington avrebbe raggiunto un accordo con gli yemeniti, i quali avrebbero accettato di sospendere gli attacchi contro i navigli americani nel Mar Rosso. Per questo avrebbe accettato di sospendere i bombardamenti, che durano da 52 giorni consecutivi e hanno degradato le capacità di azioni del gruppo — gli Houthi avevano raggiunto un’intesa simile lo scorso anno con Pechino e Mosca, che però avevano scelto di negoziare direttamente senza la leva muscolare militare.
Gli yemeniti, connessi all’Asse della Resistenza dei Pasdaran, non hanno però per ora rinunciato alla facoltà di attaccare Israele (mentre non è chiaro cosa intendono fare con le navi commerciali europee e con gli assetti militari dell’operazione Aspides che è lì per difenderle). Gli Houthi stanno destabilizzando l’asse indo-mediterraneo del Mar Rosso da oltre un anno e mezzo, e lo stanno facendo in solidarietà con Hamas — per questo colpiscono tutto ciò che ritengono alleato di Israele, come gli interessi americani e quelli europei.
Poche ore prima dell’annuncio di Trump, caccia israeliani hanno colpito duramente l’aeroporto di Sana’a e il porto di Hodeidah, due roccaforti strategico-logistiche degli Houthi. I raid sono arrivati in risposta al lancio di vari missili balistici da parte degli yemeniti verso Israele, tra cui uno che ha centrato ’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Queste azioni sono segno che, nonostante mesi di bombardamenti americani, il gruppo sostenuto dall’Iran resta pienamente operativo e determinato, e soprattutto che quando annunciato da Trump non è frutto della ricostruzione della deferenza ma di un accordo pragmatico. Fonti vicine al governo israeliano indicano che Gerusalemme non era stata informata in anticipo della decisione americana.
La tempistica solleva quindi interrogativi cruciali: Israele ha tentato di anticipare un possibile cambiamento degli equilibri regionali U.S.-led? O ha semplicemente reagito a una minaccia diretta, ignaro della svolta diplomatica di Washington? In entrambi i casi, la discrepanza nei tempi e nelle posture tra Stati Uniti e Israele evidenzia una crescente divergenza nelle modalità con cui i due alleati valutano — e cercano di gestire — l’arco delle minacce che si estende attorno allo Stato ebraico. Dal Mar Rosso a Gaza, dal Libano all’Iran, lo scenario è tutt’altro che stabilizzato. E siamo a diciannove mesi di guerra israeliana nella Striscia di Gaza.
“La nuova assertività degli Houthi verso Israele ci sta dimostrando che al netto di qualsiasi tentativo israeliano di proteggere l’intera articolazione dei propri confini, trova davanti a sé un fronte molto complesso”, evidenzia Giuseppe Dentice, analista nell’Osservatorio Mediterraneo (OsMed) dell’Istituto per gli Studi Politici S. Pio V. Per Dentice, il missile sullo scalo di Tel Aviv è stato significativo, perché ha dimostrato che le difese aeree israeliane possono essere perforate — in quanto “la saturazione delle difese è uno scenario di estrema complessità all’interno di questo contesto multi-fronte, producendo ulteriori insicurezze e incertezze in Israele”.
Secondo l’esperto, sono queste circostanze che vengono usate come giustificativo per spingere sull’acceleratore delle operazioni militari, nonostante il tentativo americano (con Qatar ed Egitto) di fermare i combattimenti a Gaza. Va evidenziato infatti che la tregua momentaneamente, mediata dall’amministrazione Biden uscente e quella Trump entrante, aveva prodotto anche il fermo delle azioni degli Houthi (e di Hezbollah). Quel cessate il fuoco doveva portare a una stabilizzazione, che sarebbe partita dopo la liberazione di tutti gli ostaggi catturati da Hamas nel macabro attacco del 7 ottobre 2023 — che ha dato inizio all’attuale stagione di guerra a Gaza e caos regionale. Ma l’intesa si è rotta: sono in corso nuovi tentativi di ricostruire un quadro negoziale, ma Israele ha dato un ultimatum: liberare gli ostaggi prima del viaggio di Donald Trump nella regione del Golfo Persico (che tra l’altro Trump vorrebbe rinominare “Golfo d’Arabia”, tanto per dare il senso dell’importanza della visita).
“Dobbiamo registrare anche la continuazione, sebbene a più modesta intensità, dello scontro al nord, dove Israele non si è mai ritirata dalla linea sul fronte libanese e questo mantiene alta tensione con Hezbollah”, spiega Dentice, ricordando che “l’intento è creare una grande zona cuscinetto che vada dal mare all’entroterra, e questo progetto coinvolge anche settori della Siria”.
Su tutto poi emergono nuove fasi espansive in Palestina, che diventano un elemento interno di disequilibrio internazionale. “In poche parole possiamo definire una rioccupazione della Striscia, che va compresa in termini temporali e geografici: parliamo per ora a tempo determinato e limitato al centro-nord, però sembra esserci l’obiettivo di spostare tutta la popolazione rimasta a Gaza verso il Sinai e in qualche modo dare seguito al progetto della Riviera lanciato da Trump”, nota Dentice.
“Ora questo non fa che esacerbare la situazione, considerando anche quanto accade in Cisgiordania: pare infatti che con l’espansione a Gaza e quella del West Bank, Israele stia cercando di porre fine definitivamente, a proprio totale interesse, alla questione palestinese”. Ma a che costo? Tali processi si estendono su una serie di dinamiche, o faglie, regionali che coinvolgono come detto Yemen, Libano e Siria, e in definiva l’Iran — che secondo fonti omanite avrebbe lavorato con un approccio positivo per spingere gli Houthi ad accettare un accordo pragmatico con gli Stati Uniti.
“Iran e Usa si parlano, ma c’è un confronto in corso con Israele, e pare continuare a esserci assenza di visione di lungo periodo e grand strategy: una situazione che sta da anni caratterizzando l’approccio generale nella regione. Resta uno scenario convulso e caotico, dovremmo spingere la diplomazia anziché depauperarla per soluzioni rapide, che rischiano di frammentare ulteriormente il quadro regionale e internazionale: ma invece…”, chiude Dentice.