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Trump, Putin e l’equilibrio difficile dell’Occidente (che stavolta c’è). L’analisi di Arditti

Trump chiama Putin, e riconosce che lì si gioca la partita vera. Zelensky lo capisce, e si adatta. L’Europa resta compatta nel sostegno. E il Papa indica una rotta spirituale, ma anche profondamente politica. Così, tra mille fatiche, prende forma un equilibrio che non è definitivo, ma inizia a essere reale. La pace è vicina, dunque? Decisamente più no che si. Ma qualcosa si muove. Il corsivo di Roberto Arditti

La telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin rappresenta uno snodo decisivo, almeno dal punto di vista politico. Sul campo di battaglia è tutta un’altra storia, certo, ma il messaggio che arriva da questo colloquio è inequivocabile: per provare a costruire un’uscita (lontana) dalla guerra serve tornare al dialogo diretto tra le massime potenze.

Ed è anche – e soprattutto – il riconoscimento esplicito, da parte americana, che l’interlocutore resta Vladimir Putin.

“Fuori i secondi”, come nei grandi match.

Trump e Putin scelgono di parlarsi senza intermediari, nella consapevolezza che la crisi ucraina si può governare solo a quel livello. Il presidente americano ha spiegato che “ogni passo verso la stabilizzazione richiede il coinvolgimento dei veri decisori”, mentre Putin ha parlato di un confronto “necessario per chiarire le rispettive posizioni e valutare le condizioni per un eventuale cessate il fuoco”.

Ma c’è un altro passaggio da sottolineare. Dopo l’incontro alla Casa Bianca, e soprattutto dopo il confronto teso con Trump nello Studio Ovale, anche Volodymyr Zelensky ha iniziato a modificare il suo atteggiamento. Meno rigidità, meno retorica pubblica, più attenzione al ruolo degli Stati Uniti come guida del fronte occidentale. Perché – e ora anche a Kyiv lo si ammette – senza una leadership americana non c’è alcun processo negoziale credibile.

Nel frattempo l’Occidente si sta assestando su un equilibrio nuovo. Da una parte c’è l’asse del sostegno diretto a Kyiv: Francia, Germania, Regno Unito e Polonia continuano a rafforzare l’Ucraina sul piano militare, con forniture, addestramento e presenza diplomatica attiva. Un supporto essenziale per impedire a Mosca di consolidare i propri guadagni territoriali.

Dall’altra parte, si afferma una linea politica complementare, non alternativa: quella del dialogo. Gli Stati Uniti, con la mossa di Trump, tornano a usare il linguaggio del realismo. L’Italia, con una politica estera solida ma non bellicista, si muove in sintonia. E su questo asse si innesta con naturalezza anche la voce della Santa Sede: Papa Leone XIV ha parlato con chiarezza, dicendo che “la pace si costruisce riconoscendo l’esistenza dell’altro, anche quando è nemico”.

Non è ingenuità, non è resa. È comprensione del momento. E forse è proprio in questa doppia direzione – chi sostiene e chi tratta – che l’Occidente può trovare una nuova efficacia.

Trump chiama Putin, e riconosce che lì si gioca la partita vera. Zelensky lo capisce, e si adatta. L’Europa resta compatta nel sostegno. E il Papa indica una rotta spirituale, ma anche profondamente politica. Così, tra mille fatiche, prende forma un equilibrio che non è definitivo, ma inizia a essere reale.

La pace è vicina, dunque? Decisamente più no che si. Ma qualcosa si muove.


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