Washington si muove per contrastare la penetrazione cinese in Africa offrendo un’alternativa economica più equa e trasparente. Ma senza una presenza militare credibile, messa in dubbio dal possibile smantellamento del comando Africom, rischia di cedere spazio strategico ai rivali globali
“Tali opportunità, così come tali sfide, sono moltissime”. Il senatore Ted Cruz, chairman della Sottocommissione per l’Africa e la Politica Globale sulla Salute del Senato Usa, sceglie queste parole per introdurre la testimonianza del Senior Bureau Official dell’ufficio “Africa” del Dipartimento di Stato Troy Fitrell, dedicata alla crescente influenza della Cina in Africa. Sia durante il discorso principale che in occasione delle risposte date alle domande postegli dai senatori, Fitrell ha evidenziato chiaramente come la dimensione commerciale (assieme a quella “più politica” della commercial diplomacy) rappresenti un fattore fondamentale nelle dinamiche in corso nel continente africano. Dinamiche che non sembrano però arridere agli Stati Uniti.
Fitrell sottolinea soltanto di recente (sotto la presidenza di Donald Trump) siano stati fatti degli sforzi di ricalibrazione nell’approccio Usa verso l’Africa ed i singoli Paesi parte del continente, passando “da un approccio basato principalmente sull’assistenza allo sviluppo a una strategia che dà priorità a un solido impegno commerciale, riconoscendo e trattando le nazioni africane come partner paritari nel commercio e negli investimenti”, attraverso una serie di misure che permetterebbero forma a questa “ricalibrazione”, dal già menzionato rafforzamento della diplomazia commerciale alla promozione di riforme di mercato con i governi africani, dallo sviluppo di infrastrutture di alta qualità alla costituzione di legami diretti con imprese statunitensi export-oriented e alla riforma degli strumenti commerciali delle istituzioni di Washington.
Seguendo questa ricetta, rimarca l’esponente del Dipartimento di Stato, gli Stati Uniti posso recuperare il terreno perduto, dove hanno lasciato un vuoto che Pechino (ma non solo) si è affrettata a colmare facendo ricorso a “pratiche dannose e sfruttatrici”, con l’obiettivo di monopolizzare il controllo delle risorse naturali del continente. E proprio per questo fornire un’alternativa più equa e più solida, capace id fornire non solo risorse ma stimoli per lo sviluppo all’industria privata locale, gli Stati Uniti possono facilmente invertire il trend attualmente visibile.
La testimonianza di Fitrell suggerisce dunque che sia gli attori più “politici” che quelli più “istituzionali” nel sistema id governo Usa abbiano una strategia da seguire per quel che riguarda l’approccio economico all’Africa. Ma l’economia non è tutto.
Poche settimane fa, al termine dell’esercitazione “Africa Lion” che ha visto la partecipazione congiunta delle forze armate statunitensi e di quelle dei partner africani, il comandante di Africom Michael Langley ha pronunciato parole alquanto significative, affermando che l’obiettivo degli Stati Uniti sia quello di “portare i nostri partner al livello di operazioni indipendenti” e specificando che “ci deve essere una condivisione degli oneri. Ora abbiamo delle priorità precise: proteggere la patria. E stiamo anche cercando che altri Paesi contribuiscano ad affrontare alcune di queste situazioni d’instabilità globale”. Pochi mesi prima, nel marzo di quest’anno, un documento trapelato dal Pentagono suggeriva la possibilità di “smantellare” lo stesso Africom, “riducendolo” a comando a tre stelle e ponendolo sotto l’egida del comando europeo Eucom. Una scelta alquanto discutibile per una serie di motivi.
“Un generale a quattro stelle occupa una delle sole 41 posizioni di questo tipo in tutta la struttura militare statunitense — uno strato d’élite che garantisce accesso diretto e senza filtri al segretario alla Difesa e al presidente. Si tratta di un canale d’azione cruciale, un percorso formale che consente al comandante di influenzare i dibattiti politici, sostenere richieste di risorse e presentare valutazioni sulla sicurezza incentrate sull’Africa al vertice del processo decisionale in materia di sicurezza nazionale”, commenta sulle colonne di Arab News il senior fellow ed executive director della North Africa Initiative presso il Foreign Policy Institute della Johns Hopkins University Hafed Al-Ghwell, “Eliminare questo incarico a quattro stelle significa, di fatto, silenziare il principale sostenitore dedicato all’Africa nei luoghi dove si decidono le priorità globali e si assegnano le risorse. Un vicecomandante a tre stelle, inserito nella burocrazia dell’Eucom e subordinato a un superiore concentrato principalmente sulla sicurezza europea e transatlantica, non dispone né del rango, né del prestigio, né dell’accesso diretto necessari per garantire che le complesse sfide africane ricevano l’attenzione di alto livello che meritano”.
Perseguendo una logica di “taglio dei costi”, l’amministrazione americana corre il rischio tangibile di lasciare un vuoto di potere militare in Africa in un momento critico: da una parte le milizie jihadiste stanno riprendendo sempre maggiore vigore, mettendo a repentaglio la stabilità necessaria ad un effettivo sviluppo economico, mentre dall’altra potenze rivali di Washington come Cina, ma anche Russia ed Iran, stanno penetrando sempre di più in Africa all’interno della dimensione militare, dall’acquisizione di basi navali all’esportazione di materiale militare e al dispiegamento sul campo delle private military companies. Così come successo nel settore economico, gli Stati Uniti rischiano di cessare di essere una “credibile alternativa” rispetto ad altri attori globali. Che, di questo retrenchment statunitense più o meno volontario, hanno solo da guadagnare.