Secondo il politologo americano, colpendo direttamente il cuore del programma nucleare iraniano Israele stravolge l’equilibrio strategico regionale e apre interrogativi sulle prossime mosse di Teheran, che sul momento ha perso ogni aspirazione nucleare
Nelle prime ore del 13 giugno, Israele ha lanciato un’ondata di attacchi contro obiettivi militari e nucleari chiave in Iran, infliggendo danni significativi al programma atomico di Teheran. L’operazione, che rappresenta il culmine di anni di tensioni e di stallo diplomatico, potrebbe segnare una svolta decisiva nella lunga crisi nucleare iraniana.
In un articolo su Foreign Policy, il vice presidente e senior director dell’Atlantic Council’s Scowcroft Center for Strategy and Security, Matthew Kroenig, sostiene la tesi che quella di Israele sia stata un’azione coronata dal successo: dopo oltre vent’anni di negoziati inconcludenti, sostiene il politologo, l’azione militare si è imposta come unica opzione per fermare la corsa iraniana verso l’arma atomica. L’accordo del 2015 (Jcpoa) voluto dall’amministrazione guidata da Barack Obama, era stato criticato per la sua debolezza strutturale e per le sue scadenze temporali, che offrivano a Teheran un percorso graduale verso la bomba, tanto che il presidente Trump ne decretò la fine nel suo primo mandato, senza che nel frattempo emergessero intese più stringenti. Cyberattacchi e sabotaggi hanno solo rallentato, ma mai realmente fermato il programma.
L’attacco israeliano arriva come extrema ratio: secondo le stime più recenti, il tempo necessario per l’Iran ad arricchire abbastanza uranio per una testata nucleare si era ridotto a soli 2,5 giorni. Proprio questa settimana, per la prima volta in vent’anni, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) ha censurato formalmente Teheran per la sua non conformità al Trattato di non proliferazione.
Nel suo raid, Israele ha preso di mira tre strutture nucleari principali: Isfahan, Natanz e Fordow. Quest’ultima, scavata nella montagna, rappresenta la sfida più complessa per un attacco aereo. Al momento non è chiara l’entità dei danni, ma non si esclude che Israele possa ricorrere a raid di commando o a tecniche non convenzionali, come già avvenuto in passato contro Hezbollah. Gli Stati Uniti, pur non coinvolti direttamente, restano un attore decisivo. In caso di ulteriore escalation, Washington potrebbe essere spinta a intervenire, soprattutto grazie alle sue capacità aeree e ai bunker-buster in grado di distruggere installazioni come Fordow.
Sulle risposte iraniane, le opzioni delineate da Kroenig sono molteplici. L’Iran ha già lanciato droni e missili contro Israele, molti dei quali sono stati intercettati, senza danni segnalati. Ma Teheran ha a disposizione un ventaglio più ampio di opzioni: può attivare cellule terroristiche e gruppi proxy contro obiettivi morbidi nella regione e nel mondo. Gli Stati Uniti, consapevoli del rischio, hanno evacuato il personale diplomatico dall’ambasciata in Iraq e autorizzato il rimpatrio volontario delle famiglie dei militari da diverse basi nel Medio Oriente. L’Iran potrebbe anche colpire le rotte marittime nel Golfo Persico o tentare di chiudere lo Stretto di Hormuz, una mossa che però danneggerebbe anche le sue stesse esportazioni di energia e alienerebbe potenziali sostenitori internazionali, come la Cina. Un altro timore riguarda l’eventuale uso di armi di distruzione di massa. Secondo il rapporto 2025 dei servizi segreti statunitensi, l’Iran starebbe ancora sviluppando sostanze chimiche ad azione sul sistema nervoso e non avrebbe abbandonato i programmi su agenti biologici.
Nonostante i danni subiti, suggerisce il politologo Usa, è improbabile che l’attacco israeliano provochi il crollo del regime. La leadership iraniana ha dimostrato negli anni una brutale determinazione nel mantenere il potere, anche a costo di repressioni sanguinose. La popolazione, pur scontenta, non sembra ancora disposta a insorgere in massa.
La domanda centrale, ora, è se e quando l’Iran tenterà di ricostruire il proprio programma nucleare. Gli oppositori dell’intervento militare temono che Teheran possa uscire dal Tnp e accelerare verso la bomba, ma senza le infrastrutture materiali distrutte, questo risulta impossibile nel breve termine. E se l’Iran decidesse di riprendere il programma, Israele potrebbe colpire ancora tramite interventi militari ricorrenti per impedire progressi decisivi. Trump, nel frattempo, ha cercato di capitalizzare sull’attacco, proponendo a Teheran di negoziare prima che sia “troppo tardi”. Ma il leader supremo Khamenei difficilmente accetterà: cedere ora, dopo aver subito un attacco, significherebbe mostrarsi debole di fronte all’apparato militare e religioso che sostiene il regime.