L’attentato al senatore colombiano evidenzia la crescente violenza politica in America Latina, dove la democrazia è minacciata dalle armi. Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha espresso solidarietà, sottolineando l’importanza di mantenere la Colombia stabile mentre cresce nella regione una tendenza di violenza politica
“Condanniamo con fermezza l’attacco al senatore [Miguel] Uribe Turbay. L’America Latina ha bisogno di democrazia, non di violenza”. Le parole del segretario di Stato americano Marco Rubio non sono solo un gesto di solidarietà, ma il segnale politico più esplicito di un’alleanza che punta a rimettere la Colombia al centro della stabilità regionale. Uribe, senatore di Centro Democrático, è il più giovane volto della destra democratica colombiana, un uomo con un passato familiare tragico – la madre, la giornalista Diana Turbay, fu rapita e uccisa nel 1991 – e un futuro che ora passa per un letto d’ospedale dopo il brutale attentato subito il 7 giugno durante un comizio a Bogotá.
La Colombia si avvicina alle elezioni presidenziali del 2026 in un clima che definire “teso” è un eufemismo. Il presidente uscente Gustavo Petro, primo leader dichiaratamente di sinistra della storia recente del Paese, sta affrontando un calo di consenso e tensioni interne crescenti, alimentate dalla sua paz total, un tentativo ambizioso ma controverso di negoziare con tutte le sigle armate ancora attive nel Paese. Un processo che ha provocato irritazione tanto nelle Forze Armate quanto nella classe media urbana, sempre più preoccupata per l’aumento dell’insicurezza. In questo vuoto si inserisce Uribe: giovane, conservatore, rassicurante per l’establishment, e al tempo stesso capace di parlare a un elettorato che chiede ordine e legalità.
L’attacco che ha subito non è un caso isolato. È il sintomo di una tendenza inquietante che sta attraversando tutta l’America Latina, dove la politica torna a essere regolata – troppo spesso – con le armi. Non è un’esagerazione. In Ecuador, solo pochi mesi fa, è stato assassinato il candidato presidenziale Fernando Villavicencio, voce critica contro il narcotraffico e il potere corrotto. In Brasile, la tensione politica ha raggiunto vette drammatiche, prima con l’accoltellamento a Bolsonaro e poi con l’assalto di militanti bolsonaristi ai palazzi del potere a Brasilia. In Messico, le elezioni sono accompagnate da una scia di sangue quasi sistematica: oltre 30 candidati uccisi nel solo ciclo elettorale del 2024. E in Argentina, la vicepresidente Cristina Kirchner ha rischiato la vita in un attentato fallito nel 2022.
In questo contesto, l’appoggio esplicito del segretario Rubio a Uribe non è solo una nota diplomatica. È una scelta politica. Gli Stati Uniti, in particolare con l’amministrazione Trump tornata in carica, puntano su un asse latinoamericano che contenga la deriva autoritaria e narco-criminale in Paesi strategici. Colombia, Ecuador e Paraguay sono visti come bastioni da difendere. E la figura di Uribe si inserisce perfettamente in questo disegno: moderato ma deciso, legato alla tradizione democratica di Álvaro Uribe Vélez, distante dai populismi isterici tanto di destra quanto di sinistra.
Ma proprio per questo è diventato un bersaglio. Perché in America Latina chi vuole riportare la politica al confronto delle idee, e sottrarla alla violenza e alla criminalità, paga un prezzo. E spesso lo paga in sangue.
Se Uribe riuscirà a trasformare questa ferita in una nuova spinta elettorale, lo diranno i prossimi mesi. Per ora, il suo nome è diventato simbolo di una battaglia più grande: quella per riportare la democrazia al centro della scena, in un continente dove le pallottole rischiano di parlare più forte dei voti.