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Il nemico (quasi) in casa. Le mani della Cina sui porti sudamericani

Il Csis smaschera le mire di Pechino sui grandi scali messicani e brasiliani. Non solo rotte commerciali ma anche potenziali basi per attacchi cyber e militari. Washington per ora può stare tranquilla, ma meglio tenere gli occhi ben aperti

Nonostante le oltre settemila miglia marina di distanza, il problema per gli Stati Uniti c’è. O, almeno, ci sarà. La Cina sta mettendo le mani un poco alla volta sui principali porti del Sudamerica. Molto più di una testa di ponte, una nuova rete logistica che potrebbe consentire al Dragone, che insieme al Brasile condivide un posto nei Brics, il blocco di economie alternativo e antagonista al G7. Gli Usa non dovrebbero sottovalutare questa avanzata, è il messaggio incastonato in un report del Center for international and strategic studies (Csis).

“La Cina sta rapidamente espandendo la sua influenza sui porti marittimi dell’America Latina e dei Caraibi. Costruendo, finanziando e acquistando scali chiave, le aziende cinesi si sono profondamente integrate nell’infrastruttura fisica che collega la dinamica economia marittima della regione”, è la premessa del documento. “Se da un lato questi investimenti offrono opportunità commerciali, dall’altro consentono a Pechino di ottenere una leva strategica, raccogliere dati sensibili ed espandere la propria influenza geopolitica avvicinandosi alle coste degli Stati Uniti. E questo perché gran parte dell’allarme per la crescente influenza della Cina sulle infrastrutture portuali globali si è concentrato sulla spinta della marina cinese a istituire basi navali all’estero. In luoghi come Gibuti e Cambogia, la Cina ha investito miliardi di dollari in progetti infrastrutturali civili prima di istituire strutture militari: una strategia che potrebbe cercare di emulare altrove”.

In Sudamerica c’è un problema, per ora solo potenziale. “Nel breve termine”, spiega il Csis, “è improbabile che Pechino realizzi apertamente strutture navali così vicine agli Stati Uniti continentali, dato il rischio di reazioni negative da parte di Washington. Tuttavia, acquisire influenza sui porti strategici potrebbe fornire alla Cina vantaggi cruciali, anche in assenza di una presenza militare formale. Il controllo o un profondo coinvolgimento nelle operazioni portuali possono consentire la raccolta di informazioni di intelligence sui movimenti navali statunitensi e alleati, l’accesso privilegiato ai dati logistici marittimi e la possibilità di negare o ritardare l’accesso in caso di crisi”. D’altronde, “i recenti conflitti hanno dimostrato come le infrastrutture civili a duplice uso possano essere riutilizzate per operazioni militari segrete in modi preoccupanti”.

Insomma, se da una parte “le infrastrutture portuali controllate dall’estero, come la Cina, potrebbero fungere da piattaforma per consentire attacchi simili. La Cina ha già sviluppato un sistema di lancio di missili da crociera basato su container che potrebbe consentirle di nascondere capacità di attacco all’interno di normali carichi commerciali”, dall’altra “oltre al rischio militare, il controllo dei porti offre alle aziende cinesi anche un potere di influenza sui nodi chiave delle catene di approvvigionamento regionali, rafforzando l’influenza economica e diplomatica di Pechino in America Latina e nei Caraibi. Nel tempo, i porti possono contribuire a riorganizzare le relazioni commerciali e a consolidare i partenariati economici”.

Ma dove i potenziali rischi? Quelli più alti, secondo il Csis, potrebbero riguardare il porto di Kingston, in Giamaica, crocevia di importanti rotte commerciali caraibiche, tra cui il traffico commerciale statunitense che attraversa il Canale di Panama e il Mona Passage, lo stretto tra Porto Rico e Hispaniola. È anche il porto di livello più alto gestito da un’impresa statale cinese, il che garantisce a Pechino un maggiore controllo sulle sue operazioni rispetto alle strutture gestite privatamente. Da tenere d’occhio, poi, l’imponente porto di Manzanillo, sulla costa pacifica del Messico, a causa del suo ruolo di smisurato hub per le merci da e per gli Stati Uniti. Le ricadute sul commercio statunitense derivanti da un blocco dello scalo potrebbero costare all’economia statunitense oltre 130 milioni di dollari al giorno.

Altro scalo, sempre messicano, Veracruz che, come Manzanillo, ospita un terminal gestito dalla cinese Hutchison e China Communications Construction Company, inserita nella lista nera degli Stati Uniti. A differenza di Manzanillo, tuttavia, la posizione del porto sulla costa caraibica del Messico lo orienta maggiormente verso gli scambi commerciali con gli Stati Uniti piuttosto che con l’Asia. Sebbene il porto sia molto più piccolo in termini di volume complessivo di scambi, un’interruzione a Veracruz potrebbe comunque costare all’economia statunitense 63 milioni di dollari al giorno. Occhi aperti. 


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