Nel confronto tra posizioni europee sul possibile dispiegamento di truppe in Ucraina, l’Italia resta prudente. Come nel 2003 con l’Iraq, la legittimità giuridica e l’interesse nazionale restano criteri guida. Il precedente di Berlusconi suggerisce che la cautela può rivelarsi strategica. L’analisi dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta
Truppe europee in Ucraina: sì o no? L’opportunità di inviare contingenti militari per monitorare un eventuale accordo di pace tra Mosca e Kyiv continua ad animare il dibattito politico in seno alla Nato e all’Unione europea. Se la Francia di Emmanuel Macron e la Germania di Olaf Scholz appaiono in prima fila nell’ambito della “coalizione dei volenterosi”, l’Italia, con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha finora mantenuto una posizione piuttosto prudente. Tuttavia, non è ancora chiaro se il recente vertice con Macron a Palazzo Chigi abbia consentito di compiere passi in avanti sulla questione, o quantomeno un riavvicinamento tra le posizioni di Roma e Parigi.
Per poter formulare un’opinione ragionevole sulla questione e sulle eventuali regole di ingaggio legate all’invio di un contingente, però, è necessario anzitutto fare chiarezza sul tipo di accordo che Russia e Ucraina (auspicabilmente) raggiungeranno, sulle clausole per monitorarne il rispetto e, soprattutto, su quale sarà la cornice giuridica che fornirà da inquadramento. In particolare, un punto dirimente sarà il sostegno da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
L’auspicio è che la lunga telefonata tra i presidenti Donald Trump e Vladimir Putin svoltasi nei giorni scorsi abbia consentito qualche progresso verso una possibile intesa, anche se le dichiarazioni del presidente statunitense non sembrano aprire ampi spiragli di ottimismo. In questa fase, tuttavia, sembra ragionevole escludere che la Russia possa accogliere un’eventuale accordo che preveda un eventuale monitoraggio di contingenti di Paesi Nato e/o Ue su una linea del cessate il fuoco tra le due parti e, in particolare, che Mosca sia disposta a conferire legittimità giuridica piena a tale eventuale intesa con una Risoluzione ad hoc del Consiglio di sicurezza (dove peraltro dispone del diritto di veto).
Come inquadrare la posizione dell’Italia? La prudenza di Meloni affonda le sue radici in una tradizione di cautela abbastanza consolidata nel nostro Paese. Pensiamo, per esempio, all’atteggiamento che mantenne Silvio Berlusconi durante il conflitto in Iraq nel 2003. Indubbiamente, si trattava di una situazione del tutto diversa rispetto a quella odierna (l’invasione dell’Iraq era di fatto basata su premesse fragili che si rivelarono poi false). I tentativi di conferire una copertura giuridica all’invasione dell’Iraq attraverso una risoluzione del Consiglio di sicurezza naufragarono dinanzi al minacciato veto di Francia e Russia, senza contare la netta opposizione della Germania. Nonostante ciò, gli Stati Uniti decisero di procedere con il supporto di Regno Unito, Spagna e Portogallo (certificato dal vertice che si tenne alle Azzorre a gennaio 2003). Berlusconi scelse di non partecipare e si dissociò dall’invasione militare.
In retrospettiva, si rivelò una scelta saggia e prudente. Infatti, le famigerate armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein non furono mai trovate, alimentando uno strascico di polemiche che compromise seriamente l’eredità politica di George W. Bush e Tony Blair, i due principali sponsor dell’intervento. Berlusconi decise l’invio di truppe italiane in Iraq soltanto nella sicura cornice giuridica di una missione di peace-keeping debitamente autorizzata da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che portò al dispiegamento di un nostro contingente nell’area di Nassirya all’epoca considerata meno rischiosa
Quali lezioni possiamo trarre su quanto sta accadendo oggi? Non sappiamo ancora se avremo una pace tra Russia e Ucraina e nemmeno che caratteristiche avrà. La prudenza della presidente Meloni e del ministro degli Esteri Antonio Tajani è dunque d’obbligo, anche perché le “sfortunate” intese Minsk I e Minsk II illustrano chiaramente come sia difficile garantire la fine delle ostilità tra le due parti.
È forse anche venuto il momento di una riflessione più profonda sui nostri interventi all’estero per collocarli in un quadro più utile ai nostri interessi nazionali. Per esempio, è lecito chiedersi oggi quanto utile sia stata in questo contesto la nostra pluriennale presenza in Afghanistan o quanto lo sarebbe in Ucraina dove i nostri margini di manovra sono ridotti, anche se a luglio ospiteremo a Roma la Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina. Diverso sarebbe il discorso per un Paese dove abbiamo interessi strategici ed economici primari, come la Libia.