L’Italia non può e non deve trascurare le esigenze di fare un uso più efficiente delle limitate risorse pubbliche di cui dispone e di ridurre l’eccesso di regolamentazioni e tassazioni che soffocano le iniziative economiche. Si tratta, per la classe politica, di abbandonare i vecchi canoni per nuove mete. È forse chiedere troppo? L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse
Per caratterizzare la politica americana perseguita dal nuovo presidente non vi è termine più appropriato dell’attributo “destabilizzante per tutti”. Lo si è visto nei primi sei mesi di presidenza nei confronti della democrazia interna dello stesso Paese, nelle relazioni con i Paesi alleati, nell’economia interna, nei mercati commerciali e finanziari internazionali, nelle catene del valore e nell’andamento del dollaro. Più inquietante di tutti è la destabilizzazione dell’ordine internazionale uscito dagli anni novanta del secolo scorso.
Dall’arrivo di un presidente che si professava contrario alla guerra ed impegnato a riportare la pace, al contrario è apparso coinvolto in qualche modo, oppure chiamato in causa, nell’intensificarsi dei conflitti in corso e nello scoppio di nuovi. Esempi: l’escalation della guerra in Ucraina, i massacri in Palestina, gli attacchi in Libano e nello Yemen, da ultimo quelli all’Iran, e le forti tensioni con la Cina in un crescendo di alti e bassi confronti.
Oggi il mondo si presenta più instabile e pericoloso dell’anno scorso, e l’America non dà l’impressione di impegnarsi come pacificatore, né stabilizzatore dell’ordine. L’atteggiamento accondiscendente del presidente verso leader autoritari sembra trovare un parallelo sul piano interno nella sua tendenza all’accentramento di potere a spese del Congresso e al contrasto dell’azione di bilanciamento di parte della giustizia che si richiama al rispetto delle leggi. Questi aspetti si riflettono sull’andamento del summit del G7 che si è tenuto in questi giorni sotto la presidenza canadese. I temi proposti dal Canada vertevano su punti di ampi contenuti e interpretazioni, ovvero la “protezione delle nostre comunità”, la sicurezza energetica, la digitalizzazione da accelerare e le partnerships del futuro da assicurare.
Al centro delle discussioni, tuttavia, sono state le due maggiori guerre in corso e i modi di fermare i combattimenti. Su questi punti il dialogo col presidente americano non si è presentato affatto facile per le differenze di vedute apparse nei mesi scorsi rispetto a diversi leader. L’abbandono prematuro del summit da parte di Trump mostra quanta poca importanza assegni al dialogo con i maggiori alleati e la sua propensione a procedere autonomamente, lasciando agli altri la sola scelta di accettare le sue decisioni o porsi in posizione conflittuale.
Al Vertice della Nato, che si terrà questa settimana, si vedrà se l’incontro del G7 sarà servito ad accorciare le distanze e a costruire una convergenza seppur limitata sul contenimento dei conflitti, su come potenziare la difesa in comune e sull’affidabilità dell’ombrello protettivo americano per gli europei. Attualmente, invece, il presidente sembra più interessato a sostenere lo sforzo militare dello Stato ebraico che quello dell’Ucraina, che rappresenta il maggior paese europeo aggredito dalla Russia. Di quest’ultimo non percepisce che da anni costituisce una minaccia ben più grave su uno scacchiere continentale.
Il dissenso americano ha impedito ancora una volta che si emettesse un comunicato congiunto del G7, ma sette dichiarazioni su singoli punti, tra cui non compare la guerra in Ucraina. Tra queste l’unica che entri nel concreto riguarda la formazione di un piano di azione per diversificare le fonti dei minerali critici, tema di particolare importanza per l’America per la produzione dei semiconduttori. Le altre dichiarazioni riportano le solite intenzioni dei membri del G7 di collaborare su temi rilevanti con una specifica sottolineatura per la scienza e le tecnologie dei quanti.
La destabilizzazione dell’ordine internazionale ha già comportato costi per i Paesi europei e per quelli emergenti. Le principali ripercussioni cominciano a evidenziarsi nella corsa al riarmo in Europa, nel ridimensionamento delle prospettive economiche e nella divisione internazionale del lavoro. Per i Paesi europei colmare decenni di sotto-investimento nella difesa significa dover compiere scelte impopolari tra spese per il welfare sociale e quelle per armamenti ed addestramento delle forze armate.
La vulnerabilità del fianco orientale dell’Europa alla nuova aggressività della leadership russa non è superabile in poco tempo, ma obbliga a programmi pluriennali di investimenti in tecnologie avanzate e formazione del personale nell’ordine di 3-5 punti percentuali di Pil all’anno. Il compito è reso più arduo dallo stato delle finanze pubbliche che presenta in diversi Paesi elevate incidenze del debito pubblico sul prodotto nazionale e sbilanciamenti tra entrate e spese sullo sfondo del declino demografico e di popolazioni in invecchiamento, che domandano crescenti sostegni.
Il problema non ha semplicemente un aspetto finanziario perché coinvolge anche quelli dell’avanzamento nelle nuove tecnologie e di profonda revisione della cultura sociale e del modello di difesa. In una società avvezza al pacifismo da decenni deve ingenerarsi la nuova consapevolezza della necessità di prepararsi a fronteggiare minacce esterne, che negli ultimi anni sono divenute più realistiche. E bisogna fronteggiarle in una fase in cui crescono i dubbi sull’affidabilità del sostegno del maggior alleato. Dal lato delle tecnologie, va ricordato che storicamente i maggiori conflitti si sono risolti a favore della parte che ha saputo avvalersi di una superiorità tecnologica rispetto agli avversari.
I costi della destabilizzazione toccano altresì la capacità di mantenere un adeguato tasso di espansione nell’economia. Dall’avvio sia delle nuove barriere all’accesso al suo grande mercato, sia delle misure anti-immigrazione l’economia americana ha rallentato i suoi ritmi di crescita, con riflessi su quella europea e del Giappone. La rottura di catene di fornitura internazionale ben rodate ha costretto le imprese a ristrutturare i piani d’investimento e produttivi. Le previsioni di crescita dell’economia americana per l’anno in corso sono state abbassate di mezzo punto percentuale di Pil, al 1,6% secondo la Commissione europea, trascinando verso il basso le aspettative di crescita europea e quelle dei partner nord-americani. L’attività economica nell’eurozona aumenterebbe allo stesso ritmo ristagnante del 2024 (0,9%), con nessuna espansione di quella tedesca. Grande incertezza pure sull’impatto che avrà sull’economia cinese. Revisioni più ampie delle previsioni sono state fatte dal Fmi e dall’Ocse.
Su questo sfondo si sono messi in moto movimenti di capitale che hanno penalizzato il dollaro, contrariamente alle attese di un suo rafforzamento a seguito di un possibile contenimento del disavanzo di bilancia corrente e del differenziale positivo di tasso d’interesse rispetto ai principali mercati esteri. Negli ultimi tre mesi il dollaro si è deprezzato del 5,27% verso il paniere delle valute dei partner commerciali, mentre l’euro si è apprezzato verso il dollaro del 6,4%. L’incertezza sul deficit del prossimo bilancio federale, il rischio di un mix di inflazione e bassa crescita, e l’erosione dello status del dollaro come moneta rifugio in periodi di guerre importanti in Europa e Medio Oriente hanno pesato sempre più sulla valutazione della moneta americana.
Il guadagno di competitività conseguente al deprezzamento del dollaro, cumulandosi con l’effetto delle nuove barrire tariffarie, potrebbe condurre a un deciso riorientamento delle correnti di scambi commerciali di beni, con danni in specie per l’Europa e la Cina, paesi molti esposti verso il mercato americano. Lo spostamento sarebbe limitato nel breve termine per la dipendenza delle produzioni e dei consumi degli americani da input d’importazione e assumerebbe consistenza nel tempo a seconda della capacità di sostituzione delle importazioni con produzione interna e del peso delle tariffe commerciali. Per i partner l’effetto sarebbe mitigato anche dalla possibilità di diversificare gli sbocchi commerciali e di erogare aiuti pubblici alle imprese colpite. Le instabilità indotte negli scambi commerciali, nella crescita e nella valorizzazione delle principali monete di riserva si rifletterebbero, tra l’altro, sulla variabilità dei corsi delle materie prime e dell’energia, e per questo tramite su tutte le economie.
Per l’Italia le ripercussioni non si sono avvertite nel primo trimestre dell’anno perché si è avuta un’accelerazione dell’interscambio con gli Usa in anticipazione dell’introduzione dei dazi di Trump. Nel seguito dell’anno, invece, si faranno sentire sull’evoluzione del ciclo economico, con un calo delle esportazioni e uno inferiore delle importazioni, in specie a seguito dell’apprezzamento dell’euro. I nuovi dazi annunciati e sospesi fino a luglio colpirebbero il 9% dell’export italiano, concentrandosi particolarmente sui settori della meccanica, manifattura e chimico-farmaceutica. L’effetto potrebbe essere più ampio se si considera che soffrirebbe anche il commercio con l’Europa a causa dell’impatto che i nuovi dazi avrebbero sulla crescita europea.
In uno scenario così incerto e irto di eventi destabilizzanti la condotta di policy del Paese deve necessariamente orientarsi in nuove direzioni, nella consapevolezza che gli spazi di manovra sono limitati dall’esigenza di risanamento della finanza pubblica e da tendenze demografiche e tecnologiche poco modificabili nel breve termine. La risposta più immediata dovrebbe comprendere l’intensificazione della cooperazione nel quadro comunitario per sfruttare al meglio l’agire e gli strumenti in comune, e il potenziale inespresso di un mercato unico dove vanno abbattuti i numerosi impedimenti interni. Tentare, invece, di appiattirsi sulle posizioni americane servirebbe a poco in quanto l’attuale presidenza antepone a tutti la realizzazione degli interessi americani, spesso a spese degli altri.
Un altro piano di interventi dovrebbe consistere in una sferzata di innovazione e stimoli alla produttività per accelerare il ritmo di crescita. Ne beneficerebbero la competitività e la diversificazione dei mercati di sbocco. Altrettanto importante è perseguire nell’Ue politiche di contenimento della dipendenza dalla capacità militare e tecnologica dell’alleato americano, proprio in considerazione della sua tendenza al disimpegno dalla responsabilità di protezione dall’aggressività della Russia. L’Italia non può nemmeno trascurare le esigenze di fare un uso più efficiente delle limitate risorse pubbliche di cui dispone e di ridurre l’eccesso di regolamentazioni e tassazioni che soffocano le iniziative economiche. Si tratta per la classe politica di abbandonare i vecchi canoni per nuove mete. È forse chiedere troppo?