Gli italiani sono favorevoli alla difesa europea, ma non all’aumento delle spese per la Difesa. Questo quanto emerso dalla ricerca “La società italiana e la difesa europea”, presentata ieri dalla Fondazione Craxi. Un risultato meno contraddittorio di quanto non sembri, ma che si intreccia con le sfide e le minacce odierne. L’evento, moderato da Flavia Giacobbe e con le conclusioni del ministro Crosetto, ha permesso di inquadrare la necessità di un profondo ripensamento del ruolo dell’Italia e dell’Europa sullo scacchiere globale
Sul tema della Difesa, l’Italia rischia di figurare come la “bella addormentata d’Europa”. Questo quanto emerso da un sondaggio, condotto da Cluster17, in nove Paesi europei sui temi della Difesa e delle spese militari. Benché allineati alla media degli europei, che sostengono la necessità di un’Europa più capace di difendersi, gli italiani rimangono i più ostili all’aumento della spesa per la Difesa.
“Parlare di militari e armamenti è ancora difficilissimo in Italia. Forse più che in qualsiasi altro Paese al mondo”. Così il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che, commentando i risultati dello studio, presentato dalla Fondazione Craxi presso la Sala della Stampa estera a Palazzo Grazioli, è tornato a ribadire l’ineludibilità di cambiamenti profondi (in Italia come nel resto d’Europa) per fare fronte alle crescenti sfide e minacce del futuro.
Nonostante le cosiddette trattative di pace di Istanbul, “Putin sta continuando a convertire le industrie civili ad uso militare”, ha avvertito il ministro. “Perché pensate che lo faccia?”, ha poi incalzato. Come sottolineato da Crosetto, la scusa dell’insicurezza davanti alla minaccia Nato ormai non regge più. “Pensate davvero che ci sarebbe stata una singola opinione pubblica nella Nato che avrebbe accettato un attacco alla Russia?”.
“C’è una percezione, in chi si occupa di difesa in tutto il mondo, che il quadro di sicurezza si sia deteriorato”, prosegue Crosetto, sottolineando come persino Paesi storicamente neutrali come la Svezia stiano ora discutendo di come rafforzare la propria difesa.“Il mondo cambia e noi dobbiamo adeguarci”, ha poi aggiunto. “Eravamo grandi nazioni in un mondo piccolo, ora siamo nazioni piccole in un mondo grande ed è per questo che dobbiamo abituarci a lavorare in squadra”. Il richiamo non è soltanto alle storiche alleanze dell’Italia, dalla Nato all’Europa, ma anche alla necessità di un coordinamento globale che non si basi tanto sulle aree geografiche, ma sulla condivisione di valori e principi.
Serve un’Europa che parli con una sola voce
“Le belle addormentate sono state più di una”, ha detto Stefania Craxi, presidente della commissione Affari esteri e Difesa del Senato, “e il risveglio, in molti casi, è stato brusco”. A suo avviso, la difesa europea è oggi un tema“ineludibile, ma che non può essere affrontato in modo episodico o emergenziale. Il rischio, per l’Europa, è quello di trovarsi di fronte a una sfida storica senza avere né la soggettività politica né le architetture istituzionali per affrontarla. “In passato, abbiamo smantellato il nostro sistema di difesa pensando bastassero le missioni di peacekeeping. Ma oggi non basta più”. Craxi ha sottolineato la necessità di una visione strategica comune, di investimenti industriali condivisi e di un’Europa che sappia parlare con una sola voce – anche all’interno della Nato. “Non possiamo continuare a sperare che altri facciano per noi quello che non vogliamo o non sappiamo fare. Serve un Next Generation EU per la difesa, e serve ora”.
L’assenza di una cultura strategica europea
Il generale Stefano Cont, direttore Capability, armament and planning dell’Eda (Agenzia europea di difesa), ha sottolineato come l’Europa sia impreparata non solo dal punto di vista istituzionale, ma anche – e soprattutto – culturale: “Nei trattati comunitari c’è poco spazio dedicato alla Difesa e tutto si riduce a temi di sicurezza declinati in ottica diplomatica”. “L’idea che si possa sempre scegliere se fare o no una guerra è falsa. La storia ci insegna che spesso sono gli altri a imporre il confronto”. Non si tratta di cedere a una logica muscolare, ma di affrontare la realtà. Per Cont, l’Europa deve colmare il divario culturale che la separa da un mondo dove la forza torna ad essere criterio di influenza. A suo avviso, se si vuole davvero che l’Europa conti, bisogna smettere di pensare alla Difesa come a un ambito separato dalla cittadinanza e dalla partecipazione politica. Serve invece un “percorso di responsabilizzazione dell’opinione pubblica”: spiegare che la pace ha un costo, anche umano e materiale, e che quei valori che si danno per scontati – libertà, convivenza, democrazia – esistono solo se qualcuno li difende.
Una domanda europea di sicurezza
La ricerca “La società italiana e la difesa europea”, condotta da Cluster17 e pubblicata da Le Grand Continent, mostra con chiarezza una nuova consapevolezza diffusa nel Vecchio continente. Come esposto da Jean-Yves Dormagen, presidente di Cluster17, il 60% degli intervistati chiede una difesa comune e un esercito europeo, mentre solo il 14% continua a considerare la Nato come l’unica opzione a disposizione per sentirsi più sicuri. Una spinta che cresce soprattutto a ovest del continente, dove Donald Trump è visto come un “nemico” dal 40% degli europei (37% in Italia). Ciononostante, come sottolineato da Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes, aumenta l’idea che con gli Usa occorra trovare un compromesso, ma anche che l’iniziativa autonoma europea debba crescere.
Analisi condivisa anche da Jean-Pierre Darnis, professore all’università della Costa Azzurra, e Gilles Gressani, direttore di Le Grand Continent, secondo cui è chiaro come, stando al sondaggio, l’Europa sia ancora intenzionata a contare nella Storia. Tuttavia, questa consapevolezza non può essere limitata alle leadership e agli addetti ai lavori. “Le società europee avranno un ruolo decisivo in questa fase”, ha evidenziato Gressani.
Benché in linea con le posizioni espresse dagli altri Paesi sul macrotema della Difesa, l’Italia si distingue come il Paese più riluttante rispetto all’aumento della spesa militare. Una riluttanza che non è episodica, ma sistemica. “Non è una questione di oggi”, ha detto Giovanni Orsina, storico e professore di Storia contemporanea alla Luiss. “Già all’inizio degli anni 2000, alcuni sondaggi rilevavano una bassissima propensione degli italiani a investire nella Difesa rispetto ad altri Paesi europei”. E da allora, poco è cambiato.
Secondo Orsina, questa distanza affonda le radici in una combinazione unica di fattori storici e culturali che rende l’Italia un caso a sé in Europa. Allo sviluppo tardivo di una tradizione nazionale consolidata e alla posizione periferica rispetto alla direttrice Est-Ovest che ha caratterizzato i conflitti europei degli ultimi cinque secoli, si aggiungono una popolazione sempre più anziana e un’eredità politica pacifista maturata durante la Guerra Fredda. “Siamo l’unico Paese europeo a concentrare in sé questi quattro elementi specifici”, ha sottolineato.