Il presidente americano vuole portare a casa un accordo che racconti ai suoi elettori degli sforzi intentati per mettere al centro del mondo gli Stati Uniti. L’Europa è un problema marginale, la guerra commerciale è un affare tra Pechino e Washington. Intervista a Tommaso Monacelli, economista e docente alla Bocconi
Qualche giorno fa Donald Trump ha parlato al telefono per un’ora e mezza con Xi Jinping. Tema, nemmeno a dirlo, i dazi. Clima costruttivo, voglia di negoziare e costruire un accordo più resistente e resiliente al tempo stesso. Molto più della piccola e fragile tregua di 90 giorni, scadenza a luglio, raggiunta un mese fa. Forse sarà la volta buona, forse no. Una cosa, però, è certa: bisogna trattare, perché le barricate non convengono a nessuno. Non alla Cina, non all’Europa (l’export dell’Unione europea verso gli Stati Uniti è crollato del 35% in aprile rispetto a marzo). E nemmeno agli Stati Uniti. Formiche.net ne ha parlato con Tommaso Monacelli, ordinario alla Bocconi, dove insegna macroeconomia e finanza internazionale.
In questi mesi di guerra commerciale abbiamo assistito a numerosi e repentini cambi di rotta, sotto forma di annunci. Ma c’è una strategia dietro a tutto questo?
Dovremmo imparare un nuovo termine, geoeconomia. L’amministrazione americana attuale ha una certa visione del mondo, in cui le relazioni economiche possono, anzi debbono, essere utilizzate per esercitare potere e ottenere concessioni, favori, risultati. Insomma, dividendi politici. Quindi, sì, dietro questa apparente confusione c’è una precisa strategia: raggiungere obiettivi geopolitici attraverso l’economia.
Dunque alla Casa Bianca sanno quello che fanno…
Direi di sì, anche se non sempre è facile capire. Il commercio viene usato come leva per ottenere reciproci vantaggi. La visione di Trump non è cooperativa, ma competitiva: se tu commerci con me e mi crei uno squilibrio, questo non va bene, perché tu mi stai sfruttando e ti stai avvantaggiando alle mie spalle. E questo, l’amministrazione americana, non lo tollera.
Tutti conosciamo fin troppo bene l’autosufficienza della Cina e la sua potenza di fuoco. Eppure la sensazione è che persino l’invincibile Dragone debba negoziare. Lei che dice?
Cina e Stati Uniti sono in una corsa competitiva, sul campo dell’Intelligenza Artificiale, la più grande rivoluzione della storia dell’umanità e anche quella più veloce. Si tratta di una competizione fortissima. Dal punto di vista del commercio personale, la Cina non ha interesse di andare verso guerre devastanti, non ne ha voglia e forse nemmeno la forza. L’aspettativa, dunque, è che in due-tre anni Cina e Usa si posizioneranno su barriere commerciali più alte per quanto riguarda gli Stati Uniti verso la Cina e più basse per quanto concerne Pechino verso Washington.
Tutto questo a chi gioverà?
Non è chiaro, non credo che gli Stati Uniti negozino sui dazi con la Cina per avere il via libera all’annessione della Groenlandia. L’obiettivo è certamente politico, ma forse più per fini autocratici, ovvero il rafforzamento del consenso interno. Voglio dire, forse a Trump interessa portare a casa un accordo con la Cina, vantaggioso per gli Usa, più per dimostrare al suo elettorato che gli interessi americani sono stati tutelati. Non dimentichiamoci mai da dove vengono i voti di Trump: l’America profonda, laddove c’è una percezione delle cose diversa e l’unica cosa che conta è sapere che alla Casa Bianca c’è chi difende gli Stati Uniti e i suoi interessi. Credo che il suo sia un calcolo politico: pensa già al voto di mid-term e strizza l’occhio all’elettorato della Rust belt.
E l’Europa? Come dovrebbe comportarsi dinnanzi agli Stati Uniti di Donald Trump?
Non deve assecondare la visione competitiva americana. Limitare ulteriormente il libero scambio e chiudersi in risposta al protezionismo sarebbe un boomerang: al contrario, i Ventisette Paesi dovrebbero far leva sulla propria potenza commerciale, insieme sono il secondo esportatore e importatore globale e muoversi per compensare la perdita di quote di mercato negli Usa con un rafforzamento degli scambi interni all’Unione e nuovi accordi con Mercosur, Canada, India, Giappone, Brasile. Lo scenario più probabile, una volta che sarà finita questa girandola del “metto i dazi, tolgo i dazi”, sarà quello con tariffe molto più alte per la Cina, piuttosto che per l’Europa. Sa questo che significa? Che il vero nodo, il vero problema per gli Usa è il Dragone e non certo l’Europa.