Iran e Israele combattono senza soluzione di continuità. Mentre i leader del G7 si riuniscono in Canada, i bombardamenti si approfondiscono e una guerra totale è un rischio concreto. Il gruppo ha punti di vista differenti, ma vede nella de-escalation l’obiettivo comune, condiviso anche dai partner globali. Come si concretizzerà questa linea?
I leader dei sette Paesi economicamente più potenti del mondo si riuniscono oggi a Kananaskis, nella provincia canadese di Alberta, con sullo sfondo anche l’escalation militare tra Iran e Israele. Una crisi che complica ulteriormente un quadro globale già teso, tra una guerra in Ucraina che sembra senza via di conclusione (nonostante tentativi e promesse) e una massiccia disputa commerciale alimentata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – leader di quella stessa nazione che, teoricamente, rappresenta il cuore del G7, ma che oggi Politico definisce criticamente “G6+1”, a segnare le distanze ormai strutturali.
Se, come nota una fonte diplomatica europea, “non uscirà da questa riunione un sentimento di maggiore unità”, la gestione del conflitto Iran-Israele può essere un punto di allineamento?
Mentre gli aerei dei leader europei attraversano l’Atlantico verso ovest, nella direzione opposta viaggiava uno stormo di aerei cisterna americani – diretti probabilmente a rafforzare le capacità operative israeliane, o pronti a sostenere un eventuale coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nei raid contro la Repubblica Islamica. Negli Stati Uniti non c’è una posizione univoca tra Congresso e Casa Bianca, ma all’interno degli apparati militari e di intelligence ci sono ambienti che ritengono questa l’occasione giusta per aiutare un alleato strategico a regolare i conti con un nemico storico. Trump afferma che “la porta del negoziato è sempre aperta”, ma avverte che potrebbe non esserlo ancora a lungo.
Al contrario, in Europa, la linea è chiara e unica: lavorare per la de-escalation – obiettivo che criticamente si potrebbe anche individuare come l’unico percorribile, visto una generale limitata consistenza geopolitica del Vecchio Continente. L’asse composto da Germania, Francia e Regno Unito – i cosiddetti E3 – sta tentando di avviare un’azione diplomatica con Teheran, rivendicando quel ruolo che li vide protagonisti nella nascita del Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano che Trump ha smantellato unilateralmente durante il suo primo mandato.
“Si fa quel che si può” è la linea europea. Dopo tre giorni di escalation, Iran e Israele sono a un passo dalla guerra aperta – una guerra che, di fatto, è già in corso, sebbene manchino ancora gli estremi de iure per definirla tale. Il governo israeliano dichiara che questa è solo la prima fase; quello iraniano rivendica di essere stato colpito per primo e afferma il proprio diritto alla legittima difesa. Trump ha invitato le parti a interrompere lo scambio di attacchi, pesante senza precedenti e ormai estesi anche a infrastrutture civili e popolazioni, e ad aprire uno spazio di mediazione. Dalla Casa Bianca arriva anche l’ipotesi di coinvolgere Vladimir Putin come possibile mediatore.
Ma può davvero esserlo? Putin, che combatte una guerra non provocata in Ucraina con l’obiettivo strategico di minare la Nato e l’Unione Europea, sostenuto anche dalla tecnologia iraniana per i droni, era parte del G8 prima dell’espulsione seguita all’invasione dell’Ucraina. Che oggi possa fungere da mediatore credibile appare quantomeno discutibile.
Ci si chiede cosa spinga Trump a rilanciare questa ipotesi. Anche perché gli E3 si sono mossi subito, così come il Giappone – altro membro del G7 – che in passato ha già svolto un ruolo di canale discreto con Teheran. Lo stesso vale per l’Italia, che ha attivato fin dalle prime ore contatti paralleli con Tel Aviv e la Repubblica Islamica. Da notare che mentre Trump evocava Putin, Ursula von der Leyen parlava con il presidente israeliano, Isaac Herzog, e si confrontava anche con il premier Benjamin Netanyahu. Forse, Trump mira a coinvolgere il Cremlino per evitare che si schieri apertamente con Teheran, contenendo così la pressione del cosiddetto “asse del disordine”. O forse ritiene Putin un interlocutore più affidabile dei partner europei e delle istituzioni dell’Unione?
In ogni caso, Trump sembra davvero interessato a evitare un’escalation irreversibile – come dimostrerebbe il veto che avrebbe posto all’ipotesi israeliana di colpire la guida suprema iraniana, Ali Khamenei. Secondo alcune informazioni diffuse da media internazionali, ci sarebbero state almeno due occasioni nei giorni scorsi per un’operazione di questo tipo, ma l’opposizione americana l’avrebbe bloccata.
La de-escalation è dunque in generale obiettivo condiviso nel G7 – condiviso anche con gli attori globali partner del gruppo. L’India, oggi ospite fisso delle riunioni dei sette, ha interessi di carattere geoeconomici e securitario nel limitare il caos. I Paesi del Golfo, nel frattempo, spingono per un’integrazione regionale che includa anche l’Iran – un processo che Israele guarda con sospetto, forse persino più di quanto tema l’Iran nucleare. In questa logica, l’azione israeliana appare volta a impedire un’evoluzione geopolitica che – anche grazie ai talks avviati da Trump – avrebbe potuto rimescolare profondamente gli equilibri regionali.
Ora, dopo gli scontri e soprattutto se gli scontri non finiranno in fretta (come auspicano Trump, Ue, G7 e G20, Onu e formalmente l’intera Comunità internazionale), un cambio di regime a Teheran non è più un tabù per alcuni, e se questa dovesse diventare l’opzione in campo, il G7 si troverebbe a dover gestire le ricadute di lungo periodo di incertezza in un’area cruciale: quella che lega Europa e Asia, definisce il mercato energetico globale e incarna la sfida delle transizioni tecnologiche, sociali e politiche. Tutti processi, almeno sulla carta, sostenuti proprio dal G7.