Il vertice odierno tra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni riaccende l’attenzione sul rapporto strategico tra Italia e Francia. Dalla cooperazione industriale nel settore della difesa alla difficile gestione dei dossier libico e mediorientale, passando per la postura comune da assumere in vista del prossimo summit Nato, i due leader cercano spazi di convergenza in un contesto complesso. L’intervista all’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci (Iai)
Italia e Francia si incontrano a Roma in un momento complesso per le loro relazioni bilaterali. Mentre l’Europa riconosce la necessità di muoversi verso una maggiore integrazione strategica e industriale, le tensioni sulla cantieristica (che vede contrapposte la francese Naval Group e l’italiana Fincantieri) e la mai risolta crisi libica sembrano ostacolare i propositi mutualmente condivisi in sede Ue. L’incontro previsto oggi tra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni arriva dunque alla vigilia di passaggi importanti per il futuro dell’Europa, dall’imminente summit Nato di fine giugno agli allineamenti per rafforzare la base industriale continentale. Per fare il punto sul significato politico dell’incontro e sulle prospettive del rapporto tra Italia e Francia su questi dossier, Airpress ha intervistato Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore e già rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea.
Ambasciatore, l’incontro tra Macron e Meloni arriva in un momento molto denso sul piano europeo e internazionale. Cosa pensa del rapporto tra i due leader?
Innanzitutto, dobbiamo riconoscere che tra Macron e Meloni ci sono state e continuano a esserci delle divergenze, anche in virtù del fatto che appartengono a famiglie politiche diverse. Ciononostante, parliamo di due leader che si stimano e si rispettano a vicenda, per quanto abbiano visioni divergenti su molte questioni di interesse comune, dal futuro dell’Europa alla posizione da assumere nei confronti del presidente americano Trump.
A cosa pensa che sia dovuto l’incontro di oggi?
Spero che l’incontro di oggi sia utile per mettere fine a tutta una serie di polemiche — o di equivoci, a mio avviso — che erano stati originati dalla sensazione della nostra presidente del Consiglio di essere rimasta esclusa dal cosiddetto gruppo dei Volenterosi che, ormai qualche settimana fa, aveva deciso di riunirsi per mettere a disposizione delle forze militari da inviare in Ucraina a garanzia di un eventuale accordo sul terreno. Al momento questo accordo è molto lontano dal concretizzarsi e la questione del dispiegamento di truppe europee in Ucraina non sembra più essere all’ordine del giorno.
E quindi su cosa potrebbe concentrarsi il colloquio?
Certamente un tema su cui Meloni e Macron condividono la stessa posizione è la necessità di maggiori pressioni diplomatiche per una risoluzione del conflitto in Ucraina. Oggi l’obiettivo dovrebbe essere quello di esercitare il massimo delle pressioni del caso sulla Russia, eventualmente anche con nuove sanzioni, per cercare di creare le condizioni per un accordo di pace giusto e sostenibile che ponga fine alla guerra. Ma Meloni e Macron dovrebbero esercitare pressioni anche sul presidente americano per evitare che, in qualche modo, si disimpegni dall’operazione di mediazione che aveva avviato, seppure finora con scarso successo, e perché non faccia mancare gli aiuti militari all’Ucraina.
Ucraina a parte, sono diversi i dossier comuni tra Italia e Francia. Eppure, benché partner consolidati, spesso i due Paesi si sono trovati in contrapposizione. Secondo lei, queste divergenze sono incolmabili o esistono prospettive di maggiore allineamento?
A questo riguardo, prenderei come esempio una questione di carattere generale che riguarda entrambi i Paesi, vale a dire la situazione in Medio Oriente, in particolare a Gaza. Su questo tema credo che le posizioni di Roma e Parigi siano destinate a rimanere distanti, soprattutto dopo la dichiarazione di Macron secondo cui è arrivato il momento di riconoscere lo Stato di Palestina. Detto questo, purtroppo né la Francia né l’Italia, — purtroppo neppure l’Europa — hanno molta voce in capitolo sulla crisi in Medio Oriente. L’unico vero Paese che potrebbe fare la differenza in questo momento sono gli Stati Uniti, ma questi ultimi sembrano sufficientemente allineati sulle posizioni di Israele.
E riguardo alla Libia?
La Libia è un Paese di cui ogni tanto tendiamo a dimenticarci, salvo poi ricordarci che rimane uno straordinario focolaio di instabilità che riguarda da vicino sia l’Italia sia la Francia. Su questo spero che i due leader riescano a definire un percorso comune per cercare di stabilizzare la Libia, magari coinvolgendo l’Unione europea o altri attori internazionali. Soprattutto, spero che riescano a mettere da parte le rivalità del passato e a definire una linea comune per stabilizzare questo Paese per noi così importante.
Veniamo adesso ai rapporti industriali. Da tempo ormai si parla della necessità di una maggiore integrazione tra le industrie europee, specialmente nel settore della difesa. Eppure, sappiamo che tra Francia e Italia — ad esempio sulla cantieristica navale — nuovi progetti di cooperazione stentano a decollare. A cosa si devono questi cortocircuiti e come si potrebbero risolvere?
In passato Francia e Italia hanno collaborato con successo nel settore dell’industria della difesa. Ricordo le fregate Fremm, che — per quanto ciò che esce oggi dai cantieri francesi e italiani non sia il medesimo prodotto per entrambi — rimangono un progetto comune. C’è poi anche una collaborazione di successo nel settore della missilistica, con il consorzio europeo MBDA. Insomma, sulla carta ci sarebbero tutte le premesse per un rapporto di collaborazione tra le industrie che operano nel campo della difesa. Purtroppo però, molto spesso, queste industrie fanno scelte sulla base di criteri che rispondono a esigenze aziendali.
Come mai?
Perché non sempre è facile riuscire a combinare le buone intenzioni della politica con realtà industriali e singoli gruppi che, dal canto loro, devono far quadrare i bilanci e ottenere dei ritorni industriali significativi.
Eppure il momento non sembra l’ideale per procedere divisi…
Esattamente. Su questo tema si può solo migliorare, perché parliamo comunque di due Paesi che hanno industria della difesa all’avanguardia in molti settori. Non solo, penso anche e soprattutto all’ambito spaziale, dove entrambi avremmo molto da dire. Dubito che nell’arco dell’incontro di oggi si riusciranno a risolvere tutti i problemi, ma mi auguro che su questo tema — il rafforzamento della collaborazione tra le industrie nazionali — si riesca a dare un primo impulso per fare di più. D’altronde, questo è anche quanto ci chiede l’Europa.
Secondo lei è possibile che un impulso politico più forte riesca a ricucire gli strappi provocati finora dalla logica di mercato?
È sicuramente auspicabile. Che sia possibile è un po’ più difficile da dire, perché in passato non è sempre stato così. In questo ambito, molto dipende anche dal prodotto finale e dalla sua capacità di risultare rilevante sui mercati internazionali.
Parlando invece del summit Nato di fine mese, Francia e Italia condividono una posizione simile riguardo l’idea di aumentare le spese militari. Benché d’accordo in linea di principio, temono per l’impatto sui rispettivi bilanci pubblici. Come pensa che si comporteranno Parigi e Roma quando verrà il momento di affrontare questa decisione?
Questo è un tema politicamente molto sensibile, non solo tra europei, ma anche nel confronto con l’alleato americano. Sappiamo che probabilmente Trump si presenterà al summit chiedendo agli alleati europei di destinare il 5% del Pil alle spese per la difesa. Questo macro-obiettivo dovrebbe poi essere diviso in due componenti: una (3,5%) destinata ad acquisti prettamente militari, mentre l’altra (1,5%) improntata più genericamente alla sicurezza delle società e alle nuove tecnologie. C’è poi la questione delle tempistiche, ovvero entro quanto tempo gli alleati dovranno raggiungere il nuovo obiettivo. Sicuramente, se tale aumento fosse scaglionato sull’arco di cinque o dieci anni, questo renderebbe la cosa più più digeribile per quei Paesi — come Francia e Italia — che sono più esposti sul piano del debito pubblico.
Il tema tiene banco anche in ambito Ue…
È vero. Non è infatti un caso che né Francia né Italia abbiano chiesto di avvalersi della clausola di salvaguardia messa a disposizione dalla Commissione europea nell’ambito del ReArm Europe per finanziare la Difesa emettendo ulteriore debito fuori dai vincoli del Patto di stabilità. Strumento che invece è stato adoperato da altri 16 Paesi Ue, tra cui la Germania. Questo è effettivamente un tema su cui Meloni e Macron potrebbero cercare delle convergenze: vale a dire come rendere sostenibile nel tempo un aumento della spesa militare senza urtare al contempo la suscettibilità dell’Alleato americano.
E riguardo a quest’ultimo tema? Il rapporto con gli Stati Uniti?
Io spero che questo colloquio possa porre le basi per una linea comune europea nei confronti degli Usa, i quali restano — e vogliamo che restino — il nostro alleato principale. Tuttavia, va detto che ultimamente il nostro alleato principale ci sta creando non pochi problemi, ed è sempre più necessario che l’Europa trovi una postura coesa e coerente al riguardo.