L’intervento miliatare degli Stati Uniti spingerà quasi certamente in alto le quotazioni del greggio, provocando un effetto a cascata sui prezzi dell’energia. Chi rischia di più è l’Europa, ma anche il verdone potrebbe subire scossoni. Gli occhi sullo stretto di Hormuz
Bisognerà attendere ancora qualche ora per capire se e come i mercati reagiranno al nuovo avvitamento della crisi tra Israele e l’Iran, conseguenza dell’intervento militare degli Stati Uniti, al fianco del suo alleato storico. Di sicuro, la posta in gioco è alta. Petrolio, gas, elettricità, trasporti, nulla sembra essere immune, almeno in potenza, dagli effetti della guerra in atto. La scorsa settimana il prezzo del petrolio ha sfondato quota 70 dollari al barile, per portarsi intorno ai 79 dollari. Ora però l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto, può aggravare la situazione.
A rendere ancora più teso il clima è arrivata anche la minaccia dei ribelli Houthi dallo Yemen, che hanno annunciato la loro intenzione di colpire le forze statunitensi nel Mar Rosso. Sul campo, l’obiettivo più simbolico dell’operazione americana è stato il sito di Fordow, noto per la sua profondità e per la sua funzione centrale nel programma nucleare iraniano. Secondo fonti militari, sarebbero state utilizzate bombe penetranti ad alta capacità, in grado di colpire anche strutture sotterranee rinforzate. Il fallimento dei recenti tentativi diplomatici tra Washington e Teheran, aggravato dall’impossibilità di contattare il leader supremo Khamenei, ha accelerato lo scontro.
Come detto, una delle principali preoccupazioni per i mercati riguarda il potenziale impatto degli sviluppi in Medio Oriente sul prezzo del petrolio, con conseguenze dirette sull’inflazione globale. Un rialzo dei prezzi potrebbe infatti erodere la fiducia dei consumatori e ridurre la probabilità di un taglio dei tassi d’interesse nel breve periodo. Il Brent, benchmark internazionale, poi, è salito fino al 18% dal 10 giugno, raggiungendo giovedì un massimo quinquennale vicino agli 79,04 dollari al barile. E c’è poi il fattore Hormuz. L’Iran, che controlla lo Stretto attraverso cui transita un terzo del petrolio mondiale e un quinto delle spedizioni globali di Gnl, detiene una posizione strategica chiave. Se lo stretto venisse chiuso, i prezzi potrebbero schizzare oltre i 100 dollari al barile.
Chi rischia di più è l”Europa, che dipende in modo crescente dal Gnl globale dopo la diminuzione delle forniture di gas russo, è vulnerabile agli shock geopolitici che potrebbero influenzare le forniture da Paesi come il Qatar, che contribuisce al 10% del fabbisogno energetico europeo. Attenzione, oltre al petrolio, domani potrebbe essere la giornata che del dollaro e dell’oro. Partendo da quest’ultimo, nei momenti di massima incertezza, gli investitori fuggono verso la sicurezza. Ci si attende, dunque, un rafforzamento deciso dell’oro e degli altri metalli preziosi, considerati l’ultimo baluardo contro il caos geopolitico. E il dollaro? Il destino del verdone americano è più ambiguo. Potrebbe inizialmente beneficiare della sua natura di bene rifugio, ma la sua debolezza di fondo registrata quest’anno potrebbe portare a un suo indebolimento complessivo di fronte a una crisi di questa portata.