Israele ha sferrato un’offensiva mirata contro l’Iran, andando oltre una semplice azione preventiva. L’obiettivo sembra essere un cambio di regime a Teheran, mentre gli ayatollah cercano ad ogni costo di garantire la propria sopravvivenza. L’Italia potrebbe giocare un ruolo chiave come mediatrice per evitare un conflitto irreversibile. Il commento dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta
Mentre si intensificano in queste ore gli attacchi aerei e missilistici, è ormai evidente che non si è trattato da parte del governo israeliano solo di una mossa preventiva volta ad eliminare il programma nucleare di Teheran. È in realtà una vera e propria azione di guerra, preparata nei minimi dettagli da mesi, volta a scalzare il regime degli ayatollah in quanto minaccia esistenziale per la sopravvivenza di Tel Aviv.
In questo quadro, dunque, la questione nucleare è solo una parte del problema, anche perché la fabbricazione dell’arma atomica da parte dell’Iran avrebbe bisogno di qualche tempo per divenire operativa dopo il termine del processo necessario di arricchimento dell’uranio. Infatti, allo stato attuale Teheran non ha le capacità offensive e difensive necessarie per sferrare attacchi missilistici con testate nucleari ed esporsi quindi a reazioni fatali ed esistenziali. Dubbi in questo senso sono stati evidenziati anche di recente da osservatori sicuramente non partigiani e con incontestabili basi scientifiche.
Ben diversa è, invece, la capacità di resistenza iraniana sul piano convenzionale, come del resto sta dimostrando attraverso l’utilizzo massiccio di missili e droni e che potrebbe mettere in atto anche con azioni asimmetriche quali attentati e azioni di disturbo attraverso i suoi proxy o direttamente nello stretto di Hormuz, seppur a costo di danneggiare la sua stessa economia penalizzando le esportazioni di greggio.
In questa fase, sembra dunque chiaro che Benjamin Netanyahu stia puntando direttamente a rendere inoffensivo il regime teocratico iraniano, con l’obiettivo finale di smantellarlo e di provocare un regime change, contando sulle forze di opposizione interne ed estere e sulla simpatia di gran parte del popolo iraniano. Del resto, potrebbe essere il momento giusto per sferrare un colpo definitivo al regime degli ayatollah: il Paese è messo a dura prova da anni di sanzioni e la crisi economica con il conseguente aumento del costo della vita soprattutto per le classi medie non ha fatto altro che aumentare ulteriormente l’impopolarità del regime presso la popolazione. La situazione attuale potrebbe dunque accelerare un ricambio della classe politica-religiosa e la caduta della Guida Suprema Ali Khamenei, ed un suo avvicendamento con un esponente dell’ala più moderata. Si sta infatti rafforzando in queste ore la voce dell’ex presidente Mohammed Khatami, che da tempo sostiene l’importanza di negoziare con gli avversari senza per questo confondere il dialogo con la resa. Uno scenario probabile, con Khamenei sempre più in difficoltà e che potrebbe dunque essere messo in un angolo da una fazione più moderata sostenuta dai militari.
In questo momento, al di là delle dichiarazioni di facciata la priorità principale degli ayatollah è quella di garantire quantomeno la propria sopravvivenza ed è per questo che i negoziati con gli Stati Uniti proseguiranno, anche se magari non apertamente come era avvenuto negli ultimi mesi. Del resto, sono proprio gli stessi Stati Uniti a non volere un’altra guerra che potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione del Golfo e mettere a repentaglio gli affari miliardari concordati da Donald Trump proprio poche settimane fa con le principali monarchie dell’area. La strategia del Presidente americano non è molto sofisticata, ma segue lo schema ben preciso del ‘bastone’ e della ‘carota’: ha applaudito Israele per aver messo a segno un’operazione militare impeccabile negandone il coinvolgimento diretto e ne ha poi sposato apertamente la posizione, aumentando la pressione su Teheran e favorendo ora una mediazione magari tramite il recuperato Vladimir Putin. Obiettivo finale è ottenerne i maggiori dividendi che si concretizzano in un Iran reso inoffensivo, in una regione stabile e pacificata dove si possano moltiplicare le opportunità di business con l’appoggio dei paesi sunniti vicini a partire dall’ Arabia Saudita e dalla Turchia.
La tempesta perfetta è ora all’apice ed offre un’ultima possibilità di accordo “senza perdere la faccia” quando i due belligeranti hanno mostrato da una parte capacità offensive e dall’altra di resilienza per non arrivare ad una guerra lunga come in Iraq o Afghanistan. Il summit G7 che si chiude oggi in Canada ha fornito un’occasione per ricompattare le potenze occidentali riaffermando il diritto di Israele a difendersi e riaffermando la netta opposizione alla possibilità che l’Iran si doti dell’arma atomica. Sarebbe auspicabile se, dopo aver ritracciato questa linea rossa, si possa ripartire dall’accordo a suo tempo siglato con l’Iran e poi denunziato proprio da Trump nel suo primo mandato e per elaborare una posizione che cerchi di abbassare il livello dello scontro persuadendo l’Iran ad essere più collaborativo e trasparente sul dossier nucleare.
L’Italia, in virtù della sua tradizionale posizione equilibrata e della cooperazione bilaterale di lunga data con Teheran (che dura dai tempi di Enrico Mattei), potrebbe giocare un ruolo attivo in un processo di mediazione tra le parti in causa incluso il cosiddetto 5+1 del Jcpoa dal quale a suo tempo si era autoesclusa e nel riportare l’Iran al tavolo dei negoziati. La premier Giorgia Meloni ed il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani potrebbero sfruttare la nostra posizione diplomatica chiedendo di far parte del gruppo dei paesi negoziatori di un nuovo accordo che escluda per sempre il possesso dell’arma nucleare da parte dell’Iran, prima che il conflitto si avvii su di una strada di non ritorno che minaccerebbe l’intera regione mediorientale e mediterranea, Italia compresa.