Da quando il Dragone ha applicato le restrizioni al commercio di minerali critici, gli Stati Uniti e i Paesi alleati si sono attrezzati. Nuovi accordi, canali di approvvigionamento alternativi e più autosufficienza per le imprese. Pechino voleva mettere in difficoltà l’Occidente, ma ha ottenuto il contrario
La Cina ha aiutato l’Occidente? Se il terreno di gioco è quello delle terre rare, allora la risposta è sì. Gli Stati Uniti, partendo dal presupposto che oggi il Dragone ha in suo pugno il 70% delle miniere per l’estrazione di minerali critici, sono rientrati in gara nella corsa agli approvvigionamenti strategici. E forse c’è una manina che li ha, incredibilmente, avvantaggiati. Quella cinese. Il che va a tutto vantaggio non solo degli Usa, ma anche dell’intero Occidente. Un report del Centre for economic policy research (Cepr), mette tutto nero su bianco.
“I minerali critici sono diventati il fulcro di una lotta per la leva geopolitica e la resilienza industriale. La Cina ha recentemente imposto restrizioni all’esportazione di diversi minerali, al fine di esercitare pressione sugli Stati Uniti nell’attuale guerra commerciale”. Ma, “cosa succede quando un fornitore dominante, ovvero la Cina, decide di tagliare la fornitura? Nel 2010, quando la Cina che all’epoca forniva il 98% della produzione mondiale di minerali, impose per la prima volta rigidi controlli sulle esportazioni, qualcosa cambiò, rivelando la capacità di aziende, economie e settori di rispondere rapidamente a shock avversi di input, quale quello causato dalle restrizioni della Cina sull’esportazione di metalli rari”, spiega il Cepr.
Tradotto, il fatto che la Cina abbia cominciato a centellinare le vendite di minerali critici, ha stimolato la ricerca di canali terzi di approvvigionamento. Cosa che effettivamente gli Stati Uniti, come provano i casi di Canada, Brasile e Ucraina, stanno facendo. “Le restrizioni all’esportazione di input strategici possono reindirizzare il cambiamento tecnologico nelle industrie a valle di Paesi terzi, aprendo nuovi canali inesplorati”. E dunque, “le restrizioni all’esportazione di terre rare imposte dalla Cina hanno portato a un aumento dell’innovazione e della produttività nelle industrie al di fuori della Cina, nonché a un’impennata delle loro esportazioni”.
Più nello specifico, “al di fuori della Cina, le industrie esposte allo shock cinese e che fanno largo uso di terre rare, particolarmente difficili da sostituire – hanno reagito con una crescita più rapida dei brevetti che hanno permesso guardare ad altre terre rare, raggiungere una maggiore produttività e una performance delle esportazioni più solida. Questi effetti sono stati più pronunciati in Giappone e in Europa, dove le aziende si sono adattate ai prezzi mondiali delle terre rare, peraltro in forte aumento e all’incertezza dell’offerta”.
Per gli Stati Uniti l’ultimo caso eclatante è, come detto, il Canada. Nei giorni in cui Washington e Ottawa tentano di nuovo la strada per l’intesa sui dazi, anche in seno al G7 che proprio alle pendici delle Rock Mountains canadesi è andato in scena in questi giorni, un think tank autorevole come il Center for strategic and international studies ha lanciato un amo alla Casa Bianca: Il Canada potrebbe emergere come fornitore alternativo per integrare gli sforzi statunitensi volti a rilanciare la produzione nazionale di minerali.