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Le politiche ambientali rientrano tra le non-tariff barriers to trade?

Di Alessandra Alfino e Piergiuseppe Morone

La guerra dei dazi di Trump, lungi dall’avere conseguenze positive sul volume delle esportazioni statunitensi o dal favorire la reindustrializzazione del Paese, è invece probabilmente destinata ad impattare negativamente sui consumatori, tanto statunitensi quanto di Paesi terzi, e, cosa forse ancor più grave, potrebbe avere ricadute significative anche sulle politiche pro ambientali faticosamente intraprese dall’Unione europea. L’analisi di Alessandra Alfino e Piergiuseppe Morone

Il 2 aprile 2025, in occasione di quello che è stato definito il Liberation Day, gli Stati Uniti annunciano l’imposizione di reciprocal tariffs nei riguardi dei propri partner commerciali, che avrebbero per anni ingiustamente ostacolato le esportazioni statunitensi mediante l’imposizione di dazi sulle merci USA o l’introduzione di ostacoli non tariffari al commercio. Le misure del 2 aprile trovano un antecedente nella pubblicazione, il 20 gennaio, del Presidential Memorandum on America First Trade Policy, che rimarca l’esigenza di contrastare le situazioni di disparità ed ingiustizia nel contesto del commercio internazionale, provvedendo a rilanciare l’economia americana e a rinvigorire le condizioni del mercato statunitense.

Nel contesto dell’America First Trade Policy si inserisce il memorandum “Reciprocal Trade and Tariffs” del 13 febbraio 2025: in base a questo fair and reciprocal plan on trade, gli Stati Uniti mirano a riequilibrare gli squilibri esistenti da lungo tempo nei rapporti con i partner commerciali internazionali, assicurando parità di trattamento ed equità negli scambi ed appianando al contempo il trade deficit di cui soffrono gli Stati Uniti. In particolare, tre sono i principali obiettivi del piano: in aggiunta ai già menzionati intenti di riduzione del trade deficit e superamento della situazione di svantaggio rispetto ai partner commerciali, il presidente Donald Trump mira anche a rilanciare il settore manifatturiero e le industrie statunitensi, obiettivo, quest’ultimo, diffusamente ritenuto non conseguibile mediante l’imposizione di dazi e in generale non raggiungibile per la fisiologica tendenza dei Paesi del Nord Globale a passare da un’economia basata sul manifatturiero ad una imperniata sulla fornitura di servizi.

A seguito dell’annuncio di un futuro Liberation Day e del proclama, il 26 marzo 2025, di un’azione volta a “regolare le importazioni di automobili e parti delle stesse negli Stati Uniti”, il 2 aprile 2025 viene effettivamente annunciata l’introduzione di un dazio al 10% (a decorrere dal 5 aprile 2025) su tutte le merci importate da tutti i partner commerciali -salva espressa esenzione- nel territorio Statunitense, con la aggiuntiva previsione di specifiche maggiorazioni per taluni partner, nei confronti dei quali gli Stati Uniti registrano una situazione di elevato deficit commerciale (per questi ulteriori dazi, indirizzati specificamente nei confronti di taluni trading partners, l’entrata in vigore è fissata al 9 aprile 2025).

Alla base di queste decisioni c’è, tra l’altro, la constatazione di un’asserita violazione del principio di reciprocità e di una situazione altamente sbilanciata, aggravatasi negli ultimi anni, nei rapporti con i trading partners nonché una svantaggiosa implementazione del Most Favored Nation Treatment da parte di svariati Paesi terzi. A dire degli Stati Uniti, infatti, determinerebbe squilibri, nonché una condizione di cronico svantaggio commerciale, la circostanza per cui, mentre gli Usa mantengono una tassazione generalizzata al 3,3% sulle importazioni dei Paesi Terzi, i vari partner commerciali prevederebbero, quale generale trattamento più favorevole, aliquote sensibilmente più elevate. I dazi annunciati da Trump hanno, dunque, il compito di favorire la reindustrializzazione degli Stati Uniti e contrastare gli effetti distorsivi per le esportazioni Statunitensi generati tanto dalle misure tariffarie quanto dalle non-tariff barriers to trade istituite dai vari partner commerciali.

L’elenco di ostacoli non tariffari al commercio internazionale stilato nell’Executive Order del 2 aprile è vastissimo, con la menzione, tra l’altro, delle imposte sul valore aggiunto, dei copyrights e delle altre forme di protezione delle opere dell’ingegno e della proprietà intellettuale, delle misure poste a tutela del lavoro e dell’ambiente e delle misure sanitarie e fitosanitarie.

Le misure sanitarie e fitosanitarie (vale a dire, l’insieme di misure previste allo scopo di garantire la sicurezza dei generi alimentari e al fine di proteggere la salute umana, delle specie animali e vegetali e in generale del Pianeta), nonché quelle con vocazione ambientale, assumono particolare rilevanza con riferimento alle politiche e scelte legislative dell’Unione Europea, la quale ha definito un set di standards ambientali e tecnologici -da rispettare nel contesto della produzione di beni- particolarmente ambiziosi, con lo scopo di contrastare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici e mitigare le conseguenze dell’attuale crisi climatica.

Nel National Trade Estimate Report on Foreign Trade Barriers (Nte) del 2025 vengono richiamate molteplici environmental strategies dell’Unione, con riferimento alle quali si lamenta l’eccessiva onerosità o complessità tecnica di un eventuale allineamento da parte degli Stati Uniti; vengono inoltre citati requisiti di conformità o standards da seguire nei processi produttivi, che violerebbero le necessarie condizioni di reciprocità creando ostacoli -che non trovano un corrispettivo oltreoceano, al momento dell’ingresso dei prodotti Ue sul mercato statunitense- alle esportazioni Usa nel mercato interno dell’Unione; si contestano i requisiti tecnici associati all’introduzione del cd. ecodesign dei prodotti e del nuovo Digital Product Passport nonché di stringenti limiti massimi di residui di pesticidi o ancora di target ambientali legati all’impiego di energie rinnovabili, tutte misure ritenute suscettibili di impattare negativamente sul volume delle esportazioni Usa verso l’Ue.

Oggetto di critica è anche il nuovo Carbon Border Adjustment Mechanism (Cbam), del quale si criticano le complessità associate agli oneri di dichiarazione delle emissioni generate e le modalità di funzionamento del sistema di esenzione, attivabile solo in presenza di una prova che, a livello domestico, è stato pagato un equivalent fair price per le emissioni prodotte. Questa previsione, a parere degli esportatori statunitensi, rischierebbe di svantaggiarli considerevolmente, in ragione del loro assoggettamento a “non-price mechanisms” in luogo del pagamento di un explicit carbon price quale metodo di contenimento delle emissioni di GHGs in fase di produzione.

Le misure e politiche ambientali correntemente in vigore in seno all’Unione Europea, contrariamente alla prospettata ricostruzione in base alla quale sarebbero degli ostacoli al commercio di natura non tariffaria, sono in realtà concepite in maniera tale da cercare di rispondere efficacemente e far fronte in maniera effettiva alle conseguenze negative dell’attuale situazione di crisi climatica. Infatti, i cambiamenti climatici e le loro impattanti conseguenze hanno una natura intrinsecamente transfrontaliera, ragione per cui delle azioni ambientali destinate a produrre effetti limitatamente ad un determinato Paese o territorio sono strutturalmente inefficaci ed inadatte a promuovere un cambiamento nell’attuale scenario di degrado ambientale.

Misure come quelle poste in essere dall’UE, con la loro attitudine a condizionare i comportamenti e le tecniche di produzione tanto all’interno dei singoli Stati Membri quanto con riferimento ai partner commerciali esterni, hanno lo scopo non solo di raggiungere gli obiettivi di neutralità climatica prefissati dall’Unione per il 2050 (si veda il cd. Green Deal Europeo), ma anche di promuovere ed incentivare una transizione green da parte dei Paesi Terzi, nella piena consapevolezza che le politiche ambientali, per essere efficaci, devono necessariamente essere il frutto di un disegno condiviso e di sforzi comuni e generalizzati a livello mondiae.

Giova inoltre ricordare che, alla luce del principio delle “common but differentiated responsibilities” tutti gli Stati membri della comunità internazionale sono chiamati ad intraprendere azioni e sostenere sforzi volti a mitigare gli effetti della crisi climatica, ma l’entità degli stessi varia in base alla situazione specifica di ciascun Paese considerato e alla sua responsabilità storica, vale a dire in base a quanto ciascun Paese ha storicamente contribuito al determinarsi ed aggravarsi dell’attuale scenario di degrado ambientale. In questa prospettiva, vasto è il divario tra i Paesi appartenenti al Nord ed al Sud del mondo, con un coinvolgimento dei primi di molto maggiore rispetto a quello dei secondi e con conseguenti considerazioni in punto di sforzi per l’azione climatica. In quest’ottica, gli Stati Uniti dovrebbero proporsi quale modello virtuoso nell’adozione di standard ambientali e misure green, stanti i vantaggi tangibili per l’ambiente derivanti da un loro eventuale allineamento con quanto previsto a livello di Ue in materia.

In aggiunta, sembra quasi superfluo rimarcare come, considerato l’elevato livello tecnologico ed il rimarchevole grado di sviluppo delle industrie americane, l’allineamento  con gli standards europei in materia ambientale o in punto di abbattimento e contenimento delle emissioni di gas ad effetto serra non rappresenti un ostacolo tecnicamente insormontabile o un obiettivo concretamente irrealizzabile per le industrie statunitensi, costituendo, invece, un terreno critico per i Paesi in via di sviluppo localizzati nel Sud del mondo che abbiano un interesse a preservare i propri traffici commerciali con l’Unione (le problematiche per il Global South associate all’introduzione ed implementazione di talune misure ambientali dell’UE, in particolare il CBAM, sono già state segnalate da chi scrive in due recenti contributi: si veda sul punto A. Alfino, P. Morone, Cbam e Sud globale, l’impervia strada verso una transizione verde ed equa, 2024 e A. Alfino, P. Morone, Impact of the Eu Carbon Border Adjustment Mechanism on the Global South, 2025).

In definitiva, la “guerra dei dazi” annunciata da Trump, lungi dall’avere conseguenze positive sul volume delle esportazioni statunitensi o dal favorire la reindustrializzazione del Paese, è invece probabilmente destinata ad impattare negativamente sui consumatori, tanto statunitensi quanto di Paesi terzi, e, cosa forse ancor più grave, potrebbe avere ricadute significative anche sulle politiche pro ambientali faticosamente intraprese dall’Unione europea.

Le aspettative sono ora riposte nei negoziati che avranno luogo nel previsto periodo di sospensione dei dazi, tanto statunitensi quanto istituiti dall’Unione quali contromisure, e che si spera porteranno ad evitare una “guerra tariffaria” infruttuosa per ambo le parti e per tutto il pianeta. In questo quadro, la recente notizia della prolungata sospensione fino al 9 luglio può essere letta come un segnale positivo, anche se la crescente imprevedibilità delle scelte altera i contesti della policy, amplificando volatilità ed incertezza.


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