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Mentre Meloni alza il livello, l’opposizione cambia canale. Il commento di Polillo

Di fronte ad un’intervento molto articolato di Meloni in aula gli scorsi giorni, l’opposizione ha preferito buttare la palla in tribuna. Ha utilizzato le armi di una polemica spuntata, con riferimenti ai costi sociali che le eventuali maggiori spese per la sicurezza comporteranno. Ma sfuggendo fin dall’inizio ad un dilemma che non è solo del governo, ma dell’intera Nazione e della stessa Europa. Il commento di Gianfranco Polillo

Che l’opposizione debba fare l’opposizione è talmente scontato da non richiedere ulteriori argomentazioni. Il suo statuto le impone di tallonare governo e maggioranza parlamentare per alimentare il motore dell’alternanza. Essere critica: nella speranza che nell’immediato futuro, con il ricorso alle urne, si possa determinare quel cambiamento per cui la vecchia maggioranza è costretta ad abbandonare le casematte del potere, consentendole l’accesso a quegli stessi santuari. Fisiologia di ogni sistema democratico.

Vi sono, tuttavia, vari modi di fare opposizione. Forse quello più antico rispondeva ai canoni dell’”opposizione di sua maestà”. Già dalla definizione è facile risalire al relativo contesto. Parlamentarismo inglese, la culla della moderna democrazia. Per la verità il titolo originario, coniato nel 1826, era ancora più impegnativo “the most loyal Her Majesty’s opposition”, (la lealissima opposizione di Sua Maestà). Aveva come fondamento il principio “right or wrong, my country” (“giusta o sbagliata, è la mia Patria”) destinato a fornire un orizzonte ben più impegnativo rispetto alla semplice contrapposizione dialettica. Ad evocare quel patriottismo, fino a qualche anno fa merce deperita. Oggi, fortunatamente, recuperato.

La negazione di quei principi fu una delle tante conseguenze dell’affermarsi dei movimenti rivoluzionari degli inizi del ‘900. Per Lenin il Parlamento stesso era solo una cassa di risonanza, da utilizzare per amplificare la forza del credo rivoluzionario. L’opposizione, in altri termini, era di principio. Irriducibile come poteva essere la lotta per l’abbattimento dello Stato borghese. E al tempo stesso evocativa di un mondo diverso da far emergere dalle nebbie di una fumosa ideologia. Ancora oggi, se si sfogliano i resoconti parlamentari, è possibile notare quanto Giovanni Malagodi, allora segretario del partito liberale, nei suoi interventi ci tenesse a qualificarsi come unico rappresentante di un’opposizione costituzionale all’allora insorgente governo di centrosinistra, considerato l’anticamera del comunismo.

In generale si distingue tra un’opposizione pregiudiziale ed una più dialogante. Estremista la prima, possibilista la seconda. Ma si tratta di una distinzione che può essere fuorviante. Si prenda il caso di Donald Trump. La sua lotta contro l’establishment democratico fu senza quartiere. Si pensi solo all’assalto a Capitol Hill. Sennonché la sua successiva vittoria elettorale non trovava fondamento in quegli atti di violenza. Ma in una rappresentazione più realistica della crisi americana, che lo slogan Maga (Make America Great Again) rendeva plasticamente evidente. E tale da incontrare il favore elettorale contro le vecchie élites.

Nel dibattito di qualche giorno fa, in vista del successivo vertice europeo, la relazione di Giorgia Meloni, ha avuto un taglio che somigliava più al report di un centro studi, che non alla genericità – “chiacchiere e distintivo” – tipica di quel tipo di comunicazioni al Parlamento. Naturalmente da quell’analisi si può dissentire. Alla sola condizione tuttavia di avere riserve ben motivate. Che, nel successivo dibattito non sembrano aver fatto capolino. Era forse sbagliato richiamare l’attenzione su un “frangente internazionale estremamente complesso” – come ha fatto il primo ministro – o invocare il “principio di sussidiarietà” per far sì che la Ue si occupi principalmente delle cose importanti? De minimis non curat praetor: dicevano gli antichi.

Si può forse negare che in una situazione così complessa – come affermato – “sia importante il dialogo tra governo e Parlamento” o il prendere atto che “nessun aereo americano è partito da basi italiane”? Mentre per quanto riguarda l’Iran, non avere la consapevolezza che la Repubblica islamica “come potenza nucleare non rappresenterebbe solamente un pericolo vitale per Israele, ma avvierebbe una rincorsa a dotarsi di armi atomiche da parte degli altri attori dell’area, innescando un effetto domino che sarebbe molto pericoloso” anche per l’Italia?

L’invocazione al “cessate il fuoco a Gaza” unito alla critica per le “forme drammatiche ed inaccettabili” della “pur la legittima reazione di Israele a un terribile e insensato attacco terroristico” non è forse condivisibile? Come la consapevolezza che il “futuro della Striscia può iniziare solo con la liberazione degli ostaggi e il disarmo di Hamas”. Premessa necessaria per un “assetto futuro in cui i due popoli possano convivere in pace, dignità e sicurezza” dando luogo alla “soluzione dei due Stati”. Sarebbe la premessa per una piena integrazione di Israele “come un partner e non” come un “nemico”. In “una regione proiettata nel futuro, che esporta tecnologia e ricchezza in luogo di instabilità e terrorismo”.

E poi il ribadire la necessità ineludibile di continuare a dare “sostegno all’Ucraina” e fare “pressione sulla Russia”. Fino a decidere “il diciottesimo pacchetto sanzionatorio attualmente in discussione a Bruxelles, che si concentra sulla flotta ombra di petroliere riconducibili” a Mosca, “utilizzate per aggirare le sanzioni, e più in generale sul settore energetico e su quello bancario.” Per giungere infine al tema più spinoso e facile alla demagogia della critica pacifista: quello delle spese militari necessarie per far fronte al disimpegno americano verso l’intera Europa. Non quindi una scelta volontaria, ma una necessità derivante dalla mutata congiuntura internazionale.

Il problema poteva essere affrontato in mille modi, con accenti falsi e rassicuranti. Basti ricordare la nebulosa, non solo contabile ma politica che avvolse la decisione relativa al bonus del 110 per cento, targato 5 Stelle. E invece la presidente del Consiglio evoca “impegni che dovranno essere chiari, trasparenti e soprattutto sostenibili dal punto di vista economico e finanziario, sia per questo governo sia per quelli che verranno dopo di noi”. Formula di conseguenza auspici ricordando il rischio di “applicazioni asimmetriche” nelle “procedure di deficit eccessivo”. Un monito nei confronti di Bruxelles. Per poi misurarsi con la durezza dei numeri: “un aumento dell’1,5% in dieci anni,” secondo la proposta poi accolta in sede Nato, “è un impegno non distante da quello che nel 2014 il governo di allora prese con un aumento dell’1% atteso che in quell’anno l’Italia si trovava all’1% delle proprie spese di difesa in rapporto al Pil”.

Di fronte ad un’intervento così articolato, di cui si sono riassunti solo alcuni punti centrali, l’opposizione ha preferito buttare la palla in tribuna. Ha utilizzato le armi di una polemica spuntata, con riferimenti ai costi sociali che le eventuali maggiori spese per la sicurezza comporteranno. Ma sfuggendo fin dall’inizio ad un dilemma che non è solo del governo, ma dell’intera Nazione e della stessa Europa. Il contesto internazionale è tale da indurre all’ottimismo? Le guerre in atto ai confini dell’Europa e nel Medio Oriente sono un semplice incidente della storia o non il frutto di strategie alimentate da vocazioni di carattere egemonico contro tutto l’Occidente?

Rispondere a questa domanda, senza nascondere la testa nella sabbia, non è solo dovere della maggioranza parlamentare. Ma della stessa opposizione. Esigenza che quest’ultima non ha avvertito. Ed è un peccato. La sensazione è che si sia consumata una nuova inutile rottura, di cui è difficile valutare le relative conseguenze.


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