Le monarchie del Golfo non vogliono un Iran distrutto, ma un Iran eternamente incompiuto. Non vogliono rovesciare la Repubblica islamica, ma impedirle di crescere. È la politica della sabbia nel motore: si soffia sul fuoco solo quanto basta per tenerlo basso, senza mai spegnerlo. Perché in Medio Oriente — e soprattutto nel Golfo — il vero potere non sta nella vittoria, ma nel controllo del caos
Nella narrazione pubblica del Medio Oriente c’è un errore di prospettiva che si ripete da decenni: quello secondo cui le monarchie del Golfo — Arabia Saudita in testa — desidererebbero la caduta del regime degli ayatollah a Teheran. Un errore alimentato da analisi superficiali, da semplificazioni giornalistiche, da una visione occidentale che tende a incasellare tutto nello schema binario “amico-nemico”. E invece, come spesso accade nella geopolitica, la verità è più sottile. E più cinica.
La realtà è che le monarchie sunnite del Golfo, pur in conflitto aperto o latente con l’Iran sciita, non vogliono davvero la sua fine. Non vogliono l’implosione del regime. Non auspicano un cambio di sistema. Preferiscono piuttosto un Iran indebolito, contenuto, costretto a guardarsi le spalle. Perché un Iran forte — o peggio, un Iran riconciliato con l’Occidente — sarebbe un problema ben più grande.
Il punto è tutto qui: la forza potenziale dell’Iran fa paura. E non solo per ragioni religiose o militari. Fa paura per la sua struttura demografica, per la capacità industriale, per l’altissimo livello dell’istruzione media. L’Iran non è un Paese da Terzo Mondo, nonostante l’isolamento. È una nazione con un enorme potenziale economico, con settori avanzati in campo scientifico, medico, nucleare e tecnologico. Una volta riammesso nel circuito globale — senza sanzioni, con investimenti, con accesso ai mercati occidentali — l’Iran può diventare una potenza regionale di prim’ordine. Ecco il vero timore di Riyadh, Doha, Abu Dhabi.
In questo quadro, l’equilibrio attuale serve perfettamente ai monarchi del Golfo. Un Iran sanzionato, bloccato nelle esportazioni energetiche, impegnato a tenere in piedi un sistema interno perennemente sull’orlo della crisi, è un Iran gestibile. È l’Iran che conviene avere come vicino: abbastanza forte da non crollare, abbastanza debole da non espandersi.
C’è di più. Un Iran in bilico è anche un Iran utile come “nemico permanente” da agitare nei rapporti con gli Stati Uniti. Le monarchie del Golfo sanno bene come funziona il gioco della sicurezza: un avversario visibile, anche se contenuto, giustifica alleanze, basi militari, contratti di armamento, coperture diplomatiche. Non si rompe un equilibrio così conveniente.
E poi c’è un altro spettro che attraversa le stanze del potere saudita e emiratino: quello di una possibile intesa tra Iran e Israele. Non è fantapolitica. A più riprese, nella storia, Teheran e Gerusalemme hanno collaborato, soprattutto in chiave anti-araba. I persiani non sono arabi, non lo sono mai stati, e vedono con distacco i nazionalismi panarabisti. Una Teheran liberalizzata, guidata da un governo tecnocratico, senza il fardello ideologico degli ayatollah, potrebbe trovare sponde sorprendenti sia in Israele che in Europa. E potrebbe diventare, per Washington, un partner preferibile a molti attuali alleati nella regione. Uno scenario che fa rabbrividire i palazzi dorati del Golfo.
Non è un caso che, quando le proteste iraniane esplodono, i media sauditi le raccontino con toni ambigui: solidarietà di facciata, ma nessun sostegno concreto. Perché chi davvero sogna la caduta del regime — le donne, gli studenti, le minoranze etniche, la diaspora — non trova alleati nelle capitali sunnite. Trova al massimo spettatori interessati, pronti a godere delle difficoltà altrui ma mai a mettersi in gioco per cambiarne il destino.
Anche sul dossier nucleare il comportamento è rivelatore. I Paesi del Golfo si oppongono, formalmente, al programma atomico iraniano. Ma in realtà preferiscono che l’Iran resti sospeso nel limbo: con la tecnologia abbastanza avanzata da far paura, ma non tale da ottenere la bomba. Anche qui, il massimo vantaggio sta nell’instabilità controllata.
In sintesi: le monarchie del Golfo non vogliono un Iran distrutto, ma un Iran eternamente incompiuto. Non vogliono rovesciare la Repubblica islamica, ma impedirle di crescere. È la politica della sabbia nel motore: si soffia sul fuoco solo quanto basta per tenerlo basso, senza mai spegnerlo. Perché in Medio Oriente — e soprattutto nel Golfo — il vero potere non sta nella vittoria, ma nel controllo del caos.