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L’Europa e le sue colpe. Il caso di Norges Bank che agita i mercati

Il più grande fondo sovrano al mondo, grande sostenitore del debito italiano, ha chiesto a Bruxelles una maggiore armonizzazione delle proprie regole, fiscali e non, per non morire di scarsa competitività. Altrimenti potrebbe convenire investire altrove, cosa che il Vecchio continente non può certo permettersi. E sono mesi che Draghi lo dice

In Europa è una vecchia conoscenza. In Italia, forse, qualcosa di più. Norges Bank è oggi il più grande fondo sovrano, vale a dire controllato dal governo, del mondo. Una sorta di ciclopico salvadanaio che custodisce le ricchezze di Oslo derivanti dalla vendita di petrolio e gas. La potenza di fuoco fa una certa impressione. Asset per 1.900 miliardi di dollari, di cui 22 investiti in Italia (poco più del 50% a Piazza Affari, il resto in Btp). Quest’ultimo punto, merita una precisazione. Era lo scorso gennaio quando, come raccontato anche da questo giornale, il fondo norvegese decideva di puntare dritto al debito italiano, mettendosi in pancia oltre 8 miliardi di titoli pubblici tricolore. Una scelta di campo che mandò in sollucchero i mercati, sponda Btp.

Ora però qualcosa sembra essersi rotto, con il rischio di un lento, ma inesorabile, spostamento di interessi. Non c’è di mezzo l’Italia, bensì l’Europa e le sue mille regole, poco armoniche, spesso contraddittorie. E, per questo, nemiche degli investimenti. Il più grosso veicolo sovrano del globo ha lanciato un appello per una riforma urgente dei mercati dei capitali europei, chiede l’armonizzazione delle normative fiscali, fallimentari e di vigilanza per evitare che l’Ue perda ancora terreno in termini di competitività rispetto a Stati Uniti e Asia. Qualcosa che fa tornare alla memoria, nemmeno troppo lontana, le parole di Mario Draghi, sviluppate sotto forma di filosofia nel suo voluminoso rapporto: l’Europa è capace di farsi male con le proprie mani e prima di cercare alibi all’esterno, dovrebbe mettere ordine in casa propria. Discorso che, nella logica dell’ex presidente della Bce, vale anche e soprattutto per i dazi.

Un piccolo smottamento, comunque, già c’è stato. Il fondo, maggiore singolo investitore in azioni europee e italiane (detiene in media il 2,5% di ogni società quotata dell’area), ha visto la quota di azioni europee in portafoglio scendere dal 26% al 15% nell’ultimo decennio. La causa principale è da ricercarsi proprio nel calo della competitività dei mercati azionari europei rispetto a quelli statunitensi e asiatici. “Un mercato ben funzionante in Europa è molto importante per noi. Sembra esserci una certa urgenza tra i responsabili politici in questo momento. La sentiamo anche noi, e ne siamo felici”, ha spiegato in un’intervista al Financial Times Malin Norberg, responsabile delle strategie di mercato del fondo.

“Condividiamo la preoccupazione per il fatto che i mercati europei, nel tempo, hanno perso terreno in termini di dinamicità imprenditoriale e di offerta di nuove opportunità d’investimento per gli investitori istituzionali”. Nella pratica, Norges Bank chiede interventi in materia di riduzione delle differenze nazionali nella normativa sui titoli e regimi di insolvenza in Europa, armonizzazione dei regimi fiscali. Il fondo sovrano norvegese ritiene che la liquidità delle azioni europee dovrebbe essere migliorata attraverso la concorrenza e l’innovazione, e non tramite regolamentazione, e che la vigilanza dovrebbe essere unificata a livello europeo. Il rischio, ora e concreto, è uno spostamento del baricentro. Dove? Verso gli Stati Uniti. E questo per un motivo molto semplice: il calo degli investimenti europei è dovuto soprattutto a fattori strutturali, come il numero inferiore di società quotate. Un numero vale su tutti. Le azioni statunitensi rappresentano ora il 40% del patrimonio del fondo. Dieci anni fa l’asticella era al 21%.


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