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Quanto peserà l’opinione pubblica sul conflitto in Medio Oriente. Scrive il gen. Jean

Il futuro del conflitto è largamente imprevedibile. Sarà influenzato in Iran e, soprattutto, negli Usa dalle reazioni delle opinioni pubbliche. Irrilevanti saranno invece le pressioni di attori esterni, in particolare delle istituzioni multilaterali, quali l’Onu o l’Ue. Il commento del generale Carlo Jean

Il bombardamento Usa degli impianti nucleari iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan è circondato da fitti misteri. Veri interrogativi devono trovare risposta convincente. Li elenco brevemente, per poi esaminarne taluni in base alle informazioni disponibili. Primo, perché Trump, dopo aver accennato a un periodo di due settimane per esplorare la possibilità di riprendere i negoziati con l’Iran, ha deciso di bombardare dopo due soli giorni? Secondo, quali sono gli obiettivi che Trump si è proposto appoggiando direttamente la guerra aerea di Israele contro l’Iran e come essi (dal régime change, alla ripresa dei negoziati, alla distruzione del combustibile arricchito, o a solo quella della capacità di ulteriore arricchimento) potrebbero essere modificati soprattutto a seconda della risposta iraniana?

Terzo, quali sono stati i risultati sia reali sia politici dell’intervento Usa nel conflitto? Quarto, l’Iran era o rimane veramente in grado di costruire un’arma nucleare, fatto su cui sono state formulate dall’Iaea, dalla Cia e dai vari stati le valutazioni più diverse? Quinto: quali possono essere le reazioni, i ruoli e le dichiarazioni delle potenze globali (Russia e Cina) e regionali (Arabia Saudita, Turchia, ecc.) e quali la loro possibilità d’intervento per l’escalation o la de-escalation del conflitto? Sesto, in che modo potrà essere modificata la geopolitica del Medio Oriente, qualora dovessero prevalere Israele e gli Usa, oppure qualora il conflitto che, come sempre accade, viene previsto di corta durata e decisivo da chi lo inizia, dovesse trasformarsi in una lunga guerra di attrito?

Sono interrogativi a cui è difficile dare risposta. Gli attori coinvolti, con l’eccezione di Israele che vede in gioco la propria sopravvivenza, e la dirigenza della Repubblica Islamica dell’Iran, che considera in pericolo il regime degli Ayatollah, incluso il potere anche politico ed economico del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, hanno espresso opinioni diverse, spesso mutandole nel tempo anche per considerazioni di politica interna. Il sovrapporsi delle stragi di Gaza alle reazioni contro attacchi dell’Iran e dei gruppi da esso finanziati e di fatto controllati (Hamas, Hezbollah, Huthi, ecc.) complica ulteriormente l’affidabilità delle valutazioni circa le reali posizioni di vari stati.

Mentre Israele è condannato per Gaza dalla massa degli europei, tende ad essere giustificato per l’intervento contro il nucleare iraniano. Esso è formalmente condannato anche dagli stati arabi, specie da quelli del Golfo, che sono invece favorevoli alla distruzione del nucleare iraniano, perché sono i più esposti ad esso. Non sono preoccupati solo dal possesso della “bomba” da parte di Teheran, ma anche di quello di una quantità di uranio arricchito, tale da provocare una reazione a catena, quindi un’esplosione nucleare che distruggerebbe le loro città costiere e i grandi giacimenti petroliferi situati in vicine tenute separate. Tale ordigno potrebbe essere trasportato a bordo di un battello con tecnologie rudimentali realizzando una “massa critica” (qualche decina di kg per l’uranio 235 e una decina per il plutonio), con l’unione di due o più masse sub-critiche tenute separate fino all’ultimo. Il rischio riguarda tutti i paesi costieri.

Mi ha stupito il fatto che nelle numerose trasmissioni televisive che hanno inondato gli schermi sulle questioni del Medio Oriente non sia stato invitato qualche scienziato nucleare per spiegare la possibilità di utilizzare l’uranio arricchito con tecnologie rudimentali (non con vere e proprie bombe che devono avere sofisticati dispositivi per resistere alle accelerazioni di partenza dei missili o dei proiettili di artiglieria). Non è stato neppure spiegato il perché dell’assenza dell’aumento della radioattività come rilevato dall’Iaea nei siti iraniani colpiti e delle preoccupazioni dell’attacco alla centrale elettronucleare di Busher, le cui barre di combustibile esausto potrebbero provocare, anche con la centrale spenta, consistenti ricadute radioattive o essere impiegate per “bombe radioattive o sporche”.

Il trionfalismo espresso da Trump, subito dopo l’attacco americano, di avere “obliterato” le capacità nucleari iraniane ha lasciato luogo negli interventi del vicepresidente Usa, del segretario alla Difesa e del Capo del Joint Chiefs of Staff a un atteggiamento più cauto. Dubbi sono stati espressi sul fatto che l’uranio arricchito (e forse parte delle centrifughe) fosse stato spostato preventivamente dagli impianti nucleari in località segrete. Gli Usa si sono riservati di valutare i danni reali provocati a Fordow e a Natanz dalle superbombe lanciate dai B-2 Spirit dell’Usaf.

Trump, spero per fare il bullo, ha proposto all’Iran una de-escalation, consistente nella resa incondizionata e successiva ripresa dei negoziati “di pace”: lo ha fatto a scopo provocatorio. Ed è praticamente impossibile per la dirigenza iraniana non rispondere all’attacco Usa. È troppo debole al suo interno per poter accettare senza reagire una simile umiliazione. Rischierebbe di delegittimarsi. Il ritardo di una risposta mi sembra spiegabile. L’Iran sa di essere isolato. La Russia e, in pratica, anche la Cina, si sono “chiamate fuori”.

Il ritardo nella sua risposta contro i bombardamenti Usa non è dovuta a dubbi sulla necessità di farli. Penso che sia dovuta al fatto che Teheran si trova confrontata a una difficile scelta. Deve reagire agli attacchi per non far perdere credibilità al regime. Ma la sua reazione non deve essere troppo pesante per rendere necessaria a Trump un’escalation del conflitto che potrebbe provocare la distruzione del regime.

A parer mio, l’unica risposta che concili tali due esigenze contrapposte consiste per Teheran in attacchi indiretti, cioè in azioni terroristiche o in attacchi – soprattutto in Iraq – effettuati dalle milizie locali legate all’Iran, ma senza il suo coinvolgimento diretto. Insomma, il futuro del conflitto è largamente imprevedibile. Sarà influenzato in Iran e, soprattutto, negli Usa dalle reazioni delle opinioni pubbliche. Irrilevanti saranno invece le pressioni di attori esterni, in particolare delle istituzioni multilaterali, quali l’Onu o l’Ue. Quello dell’Iran sulla capacità del regime di mantenere il favore dell’opinione pubblica, il cui patriottismo dovrebbe essere suscitato dal fatto che l’Iran non è uno stato tribale, ma uno nazionale, abbastanza solido anche se i persiani superano di poco la metà della popolazione, mentre il resto appartiene a differenti gruppi etnici.


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