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Così il Cremlino fa leva sulla guerra tra Iran e Israele. Parla Di Liddo (Cesi)

Putin non mira a riportare l’attenzione sul conflitto in Ucraina, ma su sé stesso. La sua strategia è chiara: posizionarsi come attore imprescindibile nel grande gioco mediorientale. L’analisi di Marco Di Liddo, direttore del Centro Studi Internazionali

Nel pieno dell’escalation tra Israele e Iran, il presidente russo Vladimir Putin ha rilasciato una dichiarazione sulla sua disponibilità ad incontrare il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky, ma soltanto in caso di una conclusione positiva del processo negoziale. Dichiarazioni legate sì al conflitto in Ucraina, ma anche allo scenario mediorientale. Quali sono le logiche di quest’interdipendenza? Formiche.net ha chiesto al direttore del Centro Studi Internazionali Marco Di Liddo una lettura della vicenda.

Con le sue recenti dichiarazioni, Putin ha voluto in qualche modo riportare il focus dell’opinione pubblica internazionale sul conflitto?

Le dichiarazioni di Putin non hanno avuto lo scopo di riportare l’interesse mediatico internazionale sul conflitto ucraino, ma bensì quello di mettere la sua persona al centro di questa osservazione mediatica. Tutta l’attività mediatica è infatti concentrata sulle dichiarazioni di Putin, con il conflitto russo-ucraino che è sì sullo sfondo, ma non è il protagonista. Il protagonista è il presidente russo.

Perché farlo?

Perché Putin e il suo entourage colgono l’opportunità gigantesca di inserirsi nel discorso della guerra tra Israele e Iran. Dopo le dichiarazioni di Trump sulla possibilità che Putin possa essere un mediatore il Cremlino, che sa bene come gestire la dimensione comunicativa, ha intuito come questa fosse un’apertura con un ampio margine di capitalizzazione. Innanzitutto, perché un personaggio che viene etichettato, anche a ragione, come un autocrate repressivo e leader di un paese aggressore improvvisamente diventa il jolly che può congelare o che può contribuire alla pace in un altro fronte caldissimo del pianeta. Un fronte caldo a cui tengono tutti, Europa e Stati Uniti in primis. Ovviamente questa è una grande legittimazione che permetterebbe a Putin e alla Russia non solo di ridurre ulteriormente l’isolamento internazionale, che nei fatti è limitato al solo blocco occidentale, ma anche di accrescere o quantomeno di cercare di mantenere l’influenza russa nella Regione mediorientale. Un’influenza che dopo la caduta di Assad si è ridimensionata e che ha in questo momento nell’Iran l’unico perno o, meglio, più che nell’Iran, nella leadership congiunta dei pasdaran e degli ayatollah.

Perché tende a sottolineare questa sfaccettatura?

Uno dei tratti distintivi della strategia diplomatica russa negli ultimi anni è la tendenza a fare accordi con le leadership e non con gli Stati, cioè a personalizzare molto il rapporto di clientela politica in cui non si cerca di costruire un rapporto strategico e strutturato con il Paese, ma si cerca di costruire un rapporto fidelizzato con delle leadership. Perché il pacchetto che offre la Russia è un pacchetto di assistenza politica e militare che spesso serve a proteggere leadership autocratiche, più che a favorire lo sviluppo organico dell’economia o della società di un Paese. Questo si è visto in Siria, in Africa, in Iran. Anche gli accordi strategici nei vari settori, dal minerario alla comunicazione e all’energia atomica, sono tutti accordi che per la struttura stessa dello Stato russo non solo vanno a favorire dei singoli ministeri, ma vanno a favorire gli oligarchi. Proponendo alle controparti di fare lo stesso. La Russia funziona così, e lo ha sempre fatto.

Che vantaggio vorrebbe capitalizzare Putin dalla nuova attenzione mediatica che sta cercando di ottenere?

Putin vorrebbe trasformare il suo eventuale ruolo di mediatore in capitale da sfruttare nel fronte ucraino. Secondo i suoi calcoli, se Putin riesce a convincere la leadership iraniana a fare un passo indietro ottiene che un suo alleato resti al potere in Iran, mantenendo dunque una sponda privilegiata in Medio Oriente. Mirando ad ottenere come contropartita un approccio più morbido dall’Occidente sull’Ucraina. Inoltre, Putin dà la disponibilità al negoziato, perché come un leader che si propone o che è stato proposto come negoziatore per l’Iran non può non aprirsi al negoziato sull’altro conflitto che lo riguarda molto più direttamente. E non tralasciamo il contenuto nelle sue dichiarazioni.

Che intende?

Putin ha dichiarato di essere disposto a incontrare Zelensky soltanto nella fase finale del negoziato. E guardando alle dichiarazioni e alle strategie della leadership russa, i russi vogliono portare avanti questo negoziato soltanto a precise condizioni. Come quando hanno affermato che la prima base del negoziato è sostanzialmente l’accettazione di alcuni principi generali sullo stesso, una sorta di condizione preliminare. Condizione preliminare che favorisce i russi e che pone il ruolo ucraino al tavolo come sfavorito in partenza, perché una volta che vengono accettate quelle condizioni preliminari il negoziato si trasforma semplicemente in un progressivo iter burocratico e diplomatico che deve semplicemente attestare la sconfitta ucraina e l’accettazione delle condizioni di pace russe. E non è detto che, se il negoziato va come dicono i russi, Zelensky accetti di sedersi al tavolo.

Per quale motivo non dovrebbe farlo?

Zelensky è sì il presidente di un Paese in guerra, ma è anche un uomo che ha una carriera politica. Nel momento in cui le cose si mettessero male e l’Ucraina fosse costretta ad accettare un qualsivoglia accordo sfavorevole, quale leader interessato a continuare la sua carriera politica lo firmerebbe? Questo Putin lo sa, e quindi fa un’apertura nella consapevolezza che se il negoziato va come dice lui è molto difficile che Zelensky arrivi alla fine e firmi.

Quanto è credibile una mediazione di Putin nel conflitto tra Israele e Iran? 

Abbastanza bassa, perché comunque già ci sono altri Paesi mediatori che hanno molta più esperienza della Russia riguardo al conflitto in questione e che già sono inseriti nei meccanismi. Penso all’Oman, per esempio. Ma a parte questo dettaglio tecnico, bisogna vedere se Israele e Trump vogliono la resa incondizionata, o se siano disposti ad accettare risultati intermedi.


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