Forse, da questo fallimento può germogliare un’opportunità. Che le forze liberali, cattoliche, socialiste sparse nell’arco parlamentare e fuori da esso comprendano che il tempo dei personalismi e delle rendite di posizione è finito. Che è necessario un progetto comune, serio, credibile, per restituire dignità e prospettiva alla politica. L’opinione di Raffaele Bonanni
Tuonò tanto, ma non piovve. Così si potrebbe sintetizzare l’esito del recente referendum, clamorosamente bocciato da un elettorato che ha scelto l’astensione come forma di giudizio più eloquente di qualsiasi scheda.
Non è stato un referendum capace di attrarre cittadini di ogni orientamento politico, presentandosi come strumento utile a risolvere problemi reali. È sembrata, piuttosto, un’operazione tutta interna a logiche di partito, un duello tra fazioni che ha escluso la società civile dal campo di gioco.
I risultati parlano chiaro. Il quorum, miraggio sempre più distante, non è stato raggiunto. Non per apatia, ma per mancanza di motivazioni autentiche. I grandi referendum del passato, quelli che hanno cambiato la storia del Paese, sono riusciti a coinvolgere trasversalmente l’elettorato perché percepiti come momenti fondanti, capaci di superare steccati ideologici. Questo, invece, è apparso come una battaglia di retroguardia, utile solo ad alcune forze politiche per regolare vecchi conti interni.
Peccato. Peccato soprattutto per un quesito che avrebbe meritato ben altra attenzione: quello sulla cittadinanza per i figli degli immigrati nati e cresciuti in Italia, e per coloro che lavorano, pagano le tasse, rispettano le leggi. Un tema concreto, di giustizia e coesione sociale, sacrificato però sull’altare di un’agenda costruita per fini diversi, forse anche opposti. Sottovalutare questo errore è miope. È stato un grave sbaglio aver accettato di far viaggiare questa battaglia su un convoglio pensato per tutt’altro itinerario: quello di una sinistra estrema più interessata a colpire i riformisti di ieri e di oggi, da Marco Biagi a Massimo D’Antona, piuttosto che a costruire soluzioni per il domani.
Il danno, purtroppo, è doppio. Non solo si è persa un’occasione di riforma civile, ma si è fornito nuovo carburante a chi vorrebbe rendere più difficile lo strumento referendario. Aumentare le firme necessarie, porre nuovi limiti: sono ipotesi che oggi trovano terreno fertile anche tra chi un tempo avrebbe difeso questo istituto come pilastro democratico. Eppure, il referendum, nella visione dei costituenti, era pensato per affrontare questioni di alto profilo etico e costituzionale, non per lottizzazioni interne al teatrino politico.
Forse, da questo fallimento può germogliare un’opportunità. Che le forze liberali, cattoliche, socialiste sparse nell’arco parlamentare e fuori da esso comprendano che il tempo dei personalismi e delle rendite di posizione è finito. Che è necessario un progetto comune, serio, credibile, per restituire dignità e prospettiva alla politica. Continuare a rincorrere populismi ed estremismi – da una parte e dall’altra – non solo è inutile, ma controproducente. Sono mondi inconciliabili. E tentare di abitarli entrambi significa, in ultima istanza, non abitarne nessuno.
Serve una nuova stagione. Una stagione che guardi all’Europa con realismo e idealismo, che sappia parlare al lavoro, all’impresa, al sociale con linguaggio chiaro e proposte concrete. Una stagione in cui la buona politica torni a parlare al cuore e alla ragione degli italiani.