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Qualità della vita e città sostenibile, un sogno possibile? Risponde Monti

Una recente ricerca pubblicata dal Sole24Ore sintetizza una classifica che mostra quali città italiane riescano a fornire condizioni più o meno favorevoli per determinate categorie di cittadini. Come valutare però i dati che ci troviamo davanti? Il commento di Stefano Monti

Al centro del concetto di città c’è il sogno di una comunità. Il sogno di un gruppo di persone che, organizzandosi e sviluppando delle regole di vita civile, ambiscono e partecipano alla creazione di un luogo sicuro, in cui poter trascorrere la propria vita sereni e poter ambire a migliorare le proprie condizioni di vita.

Dalle città fortificate alla nascita dei Comuni, questi elementi sono stati da sempre la base sulla quale è stato poi sviluppato l’insieme di regole, di organi e di servizi che siamo soliti chiamare con il nome di “città”.

Questo percorso evolutivo è avvenuto nel tempo e nello spazio, e ha quindi sempre risentito delle dinamiche più ampie che si verificavano nel mondo: dalla città industriale nel periodo dell’industria a quella informatica, sino ad arrivare al sogno delle città sostenibili, in grado di garantire ai propri abitanti delle condizioni di vita favorevoli lungo l’intero percorso dell’esistenza.

Se dimentichiamo questi elementi, scoprire quale città sia più o meno adatta a determinate categorie di popolazione perde ogni forma di significato. Diventano statistiche, più o meno accurate, che non fanno altro che determinare una classifica tra le città.

Si prenda ad esempio la recente ricerca pubblicata dal Sole24Ore che sintetizza una classifica che mostra quali città italiane riescano a fornire condizioni più o meno favorevoli per determinate categorie di cittadini.

Che tipo di informazione si ottiene, ad esempio, scoprendo che la propria città non è il miglior luogo in cui invecchiare? Si lascerà la città in cui sono stati costruiti rapporti umani per trasferirsi a quella in cima alla classifica?

O al contrario, cosa accade se si scopre che la propria città è la migliore per i bambini, ma non ci si trova lavoro? Si dovrà forse rinunciare alle proprie ambizioni per poter crescere dei figli in un luogo che ha magari più asili, ma che non permette al padre e alla madre di seguire un percorso di vita che sia coerente con le proprie ambizioni?

Nell’uno o nell’altro caso, trasferirsi sarebbe davvero una scelta che migliorerebbe la qualità della vita?
Certo, è importante misurare e comparare, ma deve esser chiaro anche il fine per cui tali misurazioni avvengono.

La constatazione che a Roma ci siano meno dotazioni pro-capite per anziani di quante ce ne siano a Bolzano, Treviso o Trento è un dato comparativo che non apporta granché in termini di miglioramento generale. Soprattutto se poi si guardano soltanto indicatori che raccontano una visione piuttosto parziale della qualità della vita.

Ecco, ad esempio, quelli utilizzati per gli anziani: speranza di vita a 65 anni, geriatri, pensioni di vecchiaia, farmaci per malattie croniche, posti letto nelle RSA, pensionati, farmaci per depressione, spesa sociale per anziani, orti urbani, farmaci per obesità, servizi sociali comunali, biblioteche, infermieri non pediatrici, persone sole, inquinamento acustico.

In altri termini, la qualità della vita degli anziani in una città che emerge da questa statistica riflette una visione di vita che, quando c’è (speranza di vita a 65 anni), deve essere trascorsa, in buona sostanza, curandosi, andando in biblioteca a sfogliare il giornale, o andando in orti urbani, preferibilmente silenziosi.

Nulla sul numero di musei. Nulla sulle iniziative culturali pro-capite. Qualche investimento pubblico, sì, ma poi servizi sociali, spesa sociale e infermieri. Amen.
La qualità della vita, però, si basa su qualcosa di più che un rapporto tra utente e amministrazione. Utente e amministrazione partecipano congiuntamente a creare le migliori condizioni possibili per vivere all’interno di un dato luogo.

Se tutti i pensionati di Trapani (ultima in classifica) si riversassero nella città di Bolzano, siamo sicuri vivrebbero tutti meglio?
Per rispondere a questa domanda, può essere utile andare ad analizzare un po’ meglio che cosa si intende quando si parla di qualità della vita. Ebbene, secondo il gruppo di lavoro Quality Of Life dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la qualità della vita è la percezione che gli individui hanno della loro posizione nella vita nel contesto della cultura e dei sistemi di valori in cui vivono e in relazione ai loro obiettivi, aspettative, standard e preoccupazioni.

Ritorna il sogno della città sostenibile. La volontà di poter essere, in altri termini, in un luogo che permetta di vivere la propria esistenza in modo costruttivo. Gli ospedali sono necessari. Lo sono le strutture residenziali e semiresidenziali. Sono necessari i medici. Gli infermieri. Così come sono necessari i netturbini, i vigili, gli ausiliari del traffico, le società di pulizie e di manutenzione del verde pubblico, la presenza di un tessuto produttivo abbastanza ampio da permettere di ambire ad un lavoro coerente con le proprie aspettative, dei centri aggregativi, pubblici e privati, in grado di consentire alle persone di conoscersi, di confrontarsi. Sono necessari i negozi di prossimità e tutto ciò che consenta di sostenere una famiglia, ma sono altrettanto necessari i luoghi deputati al benessere personale, non solo alla cura della patologia.

Questo rende tali classifiche inutili? Niente affatto; esse possono essere anzi molto utili se ci si ricorda che la città è quella cooperazione tra individui e organizzazioni volta al perseguimento di un obiettivo comune. Secondo le analisi citate Varese è in una posizione più bassa della classifica rispetto a Nuoro. Come poter rendere tale informazione una conoscenza?
Analizzando tutti gli aspetti possibili della qualità della vita, includendo anche azioni che indaghino quanto si sentano in realtà soddisfatti gli abitanti di una o dell’altra città, e poi misurando tutti i servizi privati che vengono offerti, la vicinanza con i propri cari, e via discorrendo. Una volta terminata un’indagine più estesa e accurata, si dovrà successivamente definire quali azioni compiere per migliorare e chi è il soggetto più adatto.

Se misuriamo soltanto la dimensione “pubblica”, ad esempio (orti urbani, spesa sociale per anziani, servizi sociali comunali, biblioteche), dimentichiamo che la nostra esistenza avviene, per la maggior parte del tempo, tra “privati”. Senza scomodare le gallerie d’arte, o le piste da ballo latino-americano, anche soltanto un centro burraco, in questa statistica, non è contemplato.

Ovvio, non tutto si può misurare. Ma bisogna stare attenti, perché bisogna sempre ricordare il fine delle statistiche. E tra tutti i fini che può avere una classifica del genere, quella di misurare la qualità della vita come se fosse un obbligo esclusivo che grava in capo al settore pubblico, di certo non rientra tra questi.

Sarà dunque importante comprendere i dati di queste analisi, e offrirli alle amministrazioni affinché queste possano analizzare quante più dimensioni possibile del proprio agire, integrando anche le azioni private.

Con quei dati si potrà dunque valutare in modo più corretto se una città offre o meno una adeguata qualità della vita. E sempre con quei dati, si potrà anche agire facendo ni modo che i privati, in accordo con i Comuni, possano poi partecipare al miglioramento generale delle condizioni di partenza. Se ci dimentichiamo che la città è il sogno di una comunità e non del settore pubblico, allora nessuna città sarà mai in grado di essere sostenibile. È numericamente, economicamente, concettualmente e, evidentemente, impossibile.


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