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La strategia spaziale di Trump può essere un’opportunità per l’Europa. L’opinione di Vittori

È tempo di tornare a investire nello spazio a livello nazionale, ridando ossigeno alle università e agli enti di ricerca, rimasti ai margini dei grandi finanziamenti negli ultimi anni. Proprio per questo, oggi rappresentano realtà più snelle, agili, capaci di innovare, generare visione, attrarre talenti e parlare con la voce del futuro. L’opinione dell’astronauta Roberto Vittori

Il recente annuncio dell’amministrazione Trump di voler ridurre drasticamente il budget della Nasa del 24%, portandolo da 24,8 a 18,8 miliardi di dollari, ha scosso profondamente il panorama dell’esplorazione spaziale internazionale. Il taglio colpisce direttamente programmi cardine dell’architettura spaziale americana, come il razzo Space Launch System (SLS), la capsula Orion e la stazione lunare Gateway, compromettendo di fatto la continuità del programma Artemis oltre la missione Artemis III prevista per il 2027. Si tratta di una svolta che, se da un lato è giustificata come riallocazione strategica delle priorità verso Marte e verso partnership commerciali più flessibili, dall’altro rappresenta un segnale potente sul piano industriale.

Altrettanto sorprendente è stata l’uscita di scena di Jared Isaacman, imprenditore e astronauta privato, la cui nomina a capo della Nasa è stata ritirata dal presidente Trump pochi giorni prima della prevista conferma al Senato. La sua rimozione è stata interpretata da molti come un segnale di discontinuità nella politica spaziale dell’amministrazione, che sembra ora orientarsi verso una linea più strettamente allineata con l’agenda “America First” di Trump. La Casa Bianca ha annunciato che un nuovo candidato sarà nominato a breve, con l’obiettivo di guidare la Nasa in questa nuova fase di riorientamento strategico.

Questi sviluppi sollevano interrogativi sul futuro della leadership della Nasa e sulla capacità dell’agenzia di mantenere la coesione interna in un momento di profonda trasformazione e incertezza.

Dal punto di vista politico, gli Stati Uniti hanno piena legittimità nel rivedere le proprie priorità strategiche, in linea con interessi interni ed equilibri di bilancio. Tuttavia, ciò che colpisce è la costante imprevedibilità della direzione americana, che alterna obiettivi, tempi e alleanze. L’incertezza – se non la deliberata ambiguità – è ormai una cifra stabile della postura internazionale statunitense. Non si tratta di confusione, bensì di una vera e propria strategia del disorientamento, progettata per spiazzare gli interlocutori e rendere difficile ogni forma di reazione simmetrica. Più gli altri sono costretti a rincorrere, più Washington conserva la centralità della narrativa globale.

Nel settore spaziale, l’effetto collaterale più tangibile di questa “strategia dell’incertezza” è la messa a nudo delle fragilità europee. L’Agenzia Spaziale Europea (Esa) si trova da anni in uno stato di inerzia organizzativa, prigioniera di una struttura rigida e di una cultura interna che premia la staticità più della creatività. Il dogma dell’aumento costante del budget ad ogni ministeriale ha finito per sostituire il merito dei risultati: si finanzia l’apparato, non l’ambizione. La leadership, priva di ricambio, è rimasta invariata per cicli interi, consolidando una gestione monolitica che ha prodotto più stabilità interna che slancio programmatico.

Di fatto, l’Esa non ha mai definito una strategia autonoma nell’esplorazione spaziale. Nessun programma bandiera europeo è oggi in grado di reggere l’assenza di Artemis o degli obiettivi marziani americani. Le risorse crescono, ma le idee restano al palo. Il paradosso è evidente: si allarga la macchina, aumentano i costi, ma manca un’identità progettuale riconoscibile. A dominare è una visione tecnocratica, con scarsa propensione al rischio e poca apertura verso l’ecosistema esterno.

È giunto il momento di una riflessione profonda. Alcuni segnali indicano che l’attuale leadership Esa stia iniziando, con prudenza, a valutare possibili aperture verso nuove alleanze, come quelle con le agenzie spaziali di Cina e India. Ma la questione non è tanto con chi si collabora, bensì per fare cosa. La vera debolezza europea non è nella geografia delle alleanze, ma nella sterilità di una visione strategica. Non servono solo intese diplomatiche: servono scelte radicali, idee nuove e una classe dirigente capace di interpretare un mondo che si muove rapidamente.

Paradossalmente, la traiettoria discontinua e poco lineare della politica spaziale americana può trasformarsi in una finestra di opportunità per l’Europa. Ma per coglierla, serve un atto di coraggio. Non si tratta di chiedere nuovi finanziamenti o cercare stampelle esterne: la sfida è tutta interna. Occorre puntare sull’innovazione, sulle startup, sul mondo accademico e sulla creatività diffusa che l’Europa possiede ma non valorizza. La parabola di SpaceX ormai all’apice lascia spazio a qualcosa di nuovo, sta a noi approfittare dell’opportunità e dell’incertezza americana che sta già minando la sua stessa credibilità internazionale; in questo vuoto, si apre lo spazio per nuovi modelli, nuovi protagonisti, e — se l’Europa saprà svegliarsi — per una nuova leadership.

Questa è la sfida, ma anche un’occasione storica: trasformare la vulnerabilità europea in un rilancio autenticamente autonomo. ESA non è più un apparato da sostenere, bisogna trovare alternative, possibili componenti di un ecosistema più ampio. È tempo di tornare a investire nello spazio a livello nazionale, ridando ossigeno alle università e agli enti di ricerca, rimasti ai margini dei grandi finanziamenti negli ultimi anni. Proprio per questo, oggi rappresentano realtà più snelle, agili, capaci di innovare, generare visione, attrarre talenti e parlare con la voce del futuro.


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