Il 16 giugno si terrà un convegno organizzato dal Centro Studi Cammarata di San Cataldo (Caltanissetta) per dialogare sulla reale possibilità (o circa la definitiva impossibilità) di realizzare un centro politico in Italia, per perimetrare in qualche modo (con una forma-partito vera e propria, oppure con un patto etico e culturale che risulti più forte e più cogente della disciplina di partito) quella “terra di mezzo” spesso nominalmente chiamata in causa da una parte come “centro-destra” e dall’altra parte come “centro-sinistra”. Don Massimo Naro racconta l’iniziativa
Saranno tre i relatori che, nel pomeriggio di lunedì 16 giugno dialogheranno in un convegno organizzato dal Centro Studi Cammarata di San Cataldo (Caltanissetta): mons. Francesco Savino, vicepresidente della Cei (per il Mezzogiorno); Marco Damilano, giornalista di lungo corso; Giuseppe De Mita, coordinatore di Base Popolare, federazione di movimenti centristi afferenti al Partito Popolare Europeo.
Rifletteranno circa la reale possibilità (o circa la definitiva impossibilità) di realizzare un centro politico in Italia, per perimetrare in qualche modo (con una forma-partito vera e propria, oppure con un patto etico e culturale che risulti più forte e più cogente della disciplina di partito) quella “terra di mezzo” spesso nominalmente chiamata in causa da una parte come “centro-destra” e dall’altra parte come “centro-sinistra”, ma che di fatto si è sempre più assottigliata e desertificata, divenendo elettoralmente irrilevante e pertanto inappetibile per i leader della destra e della sinistra. O – secondo un’altra interpretazione del fenomeno – restando silente, passiva, diffidente e indifferente nei confronti della politica e dei partiti, essa stessa una sorta di grande partito dell’astensionismo elettorale e più a monte del disinteresse e dell’estraniamento dalla politica. Un popolo di disertori. O, forse, un popolo che sceglie di restare esule nella propria terra, perché non vuole decentrarsi trasmigrando a destra o a sinistra. In attesa di qualcuno che, senza retorica demagogica e senza urla comiziali, lo risvegli all’interesse e alla fiducia. Qualcuno che non soltanto si mostri attendibile e credibile, ma soprattutto dimostri d’essere attendibile e credibile perché “ci crede davvero”.
Ma, addensato attorno a un fulcro attendibile e credibile, un centro politico come dovrebbe (o potrebbe) configurarsi? La questione è complessa. Non ha risvolti solamente politici. Né tanto meno può avere dei contorni immediatamente partitici. Affinché il centro esista politicamente, deve prima esistere socialmente. Se esiste – come fino a qualche decennio fa è esistito, in Italia e in altri Paesi occidentali – un ceto medio diffuso, stimolato da effettive prospettive di crescita sul versante culturale, civile ed economico, allora questo ceto medio si esprime anche in un centro politico. Un tale centro è per sua natura dinamico, perciò non conservatore o – più precisamente – conservativo, ma progressivo, espansivo e inclusivo, che si va allargando sempre più, in quanto capace di offrire prospettive concrete di miglioramento, non solo economico. Se il centro non si espande, finisce per logorarsi, per sfilacciarsi o per frantumarsi e, infine, per estinguersi. Al limite, può resistere – come presidio testimoniale – un centro puntiforme. Che però diventa riserva di caccia degli estremisti (di quelli esterni al centro, ma anche di quelli interni ad esso: appunto di “estremisti di centro” ha parlato criticamente nei mesi scorsi Marco Damilano).
Mi pare sia ciò che è accaduto negli ultimi decenni. La società in Italia (ma anche altrove) si è polarizzata sempre più, incrociando estremismi verticali ed estremismi orizzontali (voglio dire: intrecciando interessi partitici e interessi lobbistici), disarticolata da gravi disuguaglianze e incapace di distinguere tra le disuguaglianze (sempre negativamente disgregatrici) e le differenze (sempre costitutive di un sano e reale pluralismo), perciò rimanendo esposta alle sirene del populismo. Una società che non sa valorizzare le differenze e che non riesce a vincere le disuguaglianze, non riconosce alcun diritto di cittadinanza al centro. Al massimo può invocare un’alternativa moderata rispetto ai posizionamenti più estremi. In ambito politico ne è derivato il cosiddetto “terzo polo”, che in realtà ha contribuito soltanto a polarizzare ancor di più lo scenario e dopo le elezioni politiche del 2022 non è riuscito a valorizzare l’8% circa ottenuto, perché si è spezzato in due.
D’altronde, il centro dinamico e progressivo, di cui qui accenno, si può immaginare non solo come una terra di mezzo, attualmente pressoché incolta (non meno del “campo largo”, alquanto sfrangiato, che ogni tanto le opposizioni all’attuale governo di destra tentano di realizzare), ma anche come una “via di mezzo”, o come una “terza via”. Sono, queste, espressioni non esenti da una certa ambiguità. Negli anni scorsi i politici moderati che hanno dato l’impressione di voler percorrere una “via di mezzo” tra destra e sinistra, sono stati pure additati come gli esponenti di una politica “dei due forni”, pronti a panificare a destra o a manca, a seconda delle necessità del Paese – dicevano – o delle urgenze collettive, o – più prosaicamente – delle loro convenienze personali: l’esito è stato, più che un estremismo di centro, un tornacontismo di centro.
La “terza via”, dal canto suo, rievoca i tentativi già novecenteschi di sfuggire alla tenaglia rappresentata per un verso dal liberismo capitalistico e per altro verso dallo statalismo socialista o comunista. Un tentativo che nel nostro Paese, a parere di storici quali Pietro Scoppola, portò ad alchimie tossiche, come il clerico-fascismo. Ma pure al tentativo di proporre programmi politici autenticamente democratici, d’ispirazione sociale (o solidale) e liberale al contempo, aconfessionale ma non laicistica: si pensi al Ppi di Luigi Sturzo prima e poi alla Dc degasperiana. Esperimenti ormai remoti. Dopo De Gasperi la Dc si costituì come un grande centro che assorbiva in sé le varie tensioni e tendenze, organizzandole come correnti interne a quel partito. Ma quel grande centro, via via, non progrediva più. Restava sempre più incapsulato nella forma-partito e sempre meno coerente con il Paese reale. E non progredendo, si vedeva sorpassare dalla società, dalle sue metamorfosi culturali ed economiche.
Oggi gli opinionisti delle maggiori testate nazionali non mancano di far notare degli ammiccamenti centripeti. Tuttavia non sono tanti coloro che danno l’impressione di suonare la sveglia, chiamando a raccolta i moderati d’indole liberale ma pure quelli d’indole sociale e solidale. Peraltro questa sveglia, ad oggi, pare solo di carta, rappresentata da libri che parlano tutto sommato solo a chi ancora si dedica alla lettura. Penso a libri di forte tempra civica come Più uno: la politica dell’uguaglianza, di Ernesto Maria Ruffini, restio a lasciarsi etichettare con una qualche definizione perché consapevole del fatto che le definizioni tendono a essere esclusive più che inclusive e, perciò, sono “per definizione” impolitiche; o a libri d’impronta diversa, come La missione possibile: la costruzione di un partito liberal-democratico e riformatore di Luigi Marattin (che sulla questione di un centro alternativo a destra e a sinistra ha polemizzato con Damilano sulle pagine del Domani).
Ma nel corrente anno 2025 questi svegliarini di carta vanno aumentando: penso al libro di Giorgio Merlo, Cattolici al centro, con prefazione di Giuseppe De Rita, e al libro di Pino Pisicchio, L’ossessione del centro, da cui vale la pena ritagliare questa citazione: «Certo, se fosse possibile pensare in termini più larghi [di quelli in cui pensano attualmente destra e sinistra] ci si misurerebbe sul sogno di un grande centro all inclusive, ma quello è l’eterno scivolamento verso il modello democristiano, sogno che [paradossalmente] si fa ostacolo vero a ogni plausibile ragionamento sulle cose fattibili. Si cominci allora con il poco, con quello che già c’è: se si mostra solido e non allo stato gassoso, altri seguiranno». Non aiuta certo, allo stato attuale, il sistema elettorale maggioritario, subentrato al proporzionale nel 1993 e pensato apposta per favorire un panorama politico bipolare. Ma, sembra suggerire Pisicchio, si può comunque fare di necessità virtù.
Lo scopo del convegno non è di costituire alcunché. Ma di dare a pensare. Soprattutto sul fatto che il “centro-che-non-c’è” non è la via di mezzo e neppure la terza via: è un “tra”. E, dunque, qualcos’altro ancora. Non solo perché sta frammezzo, ma soprattutto perché evoca il simbolo del ponte. Platone ci ragionava su usando la parola metaxý, una specie di crasi fra metá e sýn, in mezzo (ma pure oltre) e assieme. Quasi a dire che ci si ritrova incontrandosi a metà strada, ovvero venendosi incontro, ciascuno facendo almeno un passo oltre di sé verso gli altri. Gli antichi ne erano consapevoli, sapendo che «in medio stat virtus». Ma anche un poeta contemporaneo come Les Murray lo ha ricordato: «Bisogna puntare al centro per centrare il punto». Impresa comunque ardua, gli avrebbe fatto notare un altro poeta, William Yeats, che già nella prima metà del Novecento faceva i conti col cambio d’epoca: «Le cose vanno in pezzi, il centro non reggerà. E la pura anarchia si rovescia sul mondo».