Ancora una volta le buone intenzioni del Dragone in materia di lotta all’inquinamento sono destinate a rimanere sulla carta. L’industria siderurgica dovrebbe fare la sua parte per ridurre le emissioni e spingere Pechino verso la neutralità carbonica. Eppure non succede. Ecco perché
La Cina inquina, anzi no. O meglio, inquina ma non vorrebbe farlo. La transizione, lo si è capito fin troppo bene, costa. E anche tanto. Servono investimenti potenti e ben calibrati e, soprattutto, imprese che rispondano ai piani per il taglio delle emissioni. Il Dragone ha ancora 35 anni di tempo per diventare un Paese a zero emissioni: questo, infatti, l’obiettivo politico che si è dato il governo di Xi Jinping, ovvero azzerare l’inquinamento atmosferico entro il 2060. Missione complicata, visto che oggi Pechino è ancora il primo Paese al mondo per volume di emissioni di anidride carbonica. E questo, quasi un paradosso, nonostante la Cina abbia la più grande e prolifica infrastruttura per le energie pulite dell’intero Pianeta, a cominciare dai pannelli solari.
Contraddizioni a parte, una spiegazione la si può trovare nella grande crisi che dal mattone si è propagata all’acciaio cinese. Un terreno in cui Pechino è primatista assoluta dal momento che la lega prodotta nella Repubblica popolare costa molto meno delle altre. Ma in patria le cose non vanno come dovrebbero: il collasso del comparto immobiliare ha infatti comportato una drastica riduzione dei cantieri, facendo così crollare la domanda di acciaio necessaria allo realizzazione delle case. Questo ha inevitabilmente ridotto i margini delle imprese, togliendo forza finanziaria alla transizione. Questo nonostante l’industria dell’acciaio sia palesemente inquinante, in termini di emissioni.
A Pechino c’è tanto di piano, pubblicato nel maggio del 2024, per la transizione dell’industria siderurgica. Una strategia che prevede, tra le altre cose, il risparmio energetico e la riduzione delle emissioni di carbonio mediante l’aumento della produzione da forni elettrici al 15%, il raggiungimento di un parametro di riferimento di efficienza energetica del 30% su tutta la capacità. Tutto questo per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica di circa 53 milioni di tonnellate dal 2024 al 2025. Ma ecco il problema.
Le aziende siderurgiche cinesi attualmente non dispongono dei margini di profitto necessari per investire nei cambiamenti necessari e incastonati nel piano e dunque portare avanti la decarbonizzazione. Nel 2024, tanto per dare due cifre, il margine di utile netto medio per le imprese siderurgiche della Repubblica popolare era dello 0,71% , con un calo dello 0,63% su base annua, secondo la China Iron and Steel Association. Di qui il rischio di greenwashing o, peggio, di una transizione finta. Anche perché un altro problema.
Laddove non arrivano le risorse delle imprese dell’acciaio, per i motivi di cui sopra, si potrebbe sempre ricorrere alle banche, dunque ai prestiti. Eppure anche qui si rischia il buco nell’acqua. Ad oggi mancano in Cina sussidi e incentivi, anche fiscali, in grado di fluidificare il credito alle aziende dell’acciaio. La banca centrale, la Pboc, potrebbe adoperarsi, ma non lo fa. Di conseguenza, solo le imprese relativamente grandi stanno tentando su piccola scala di finanziare la propria transizione. Il resto, rimane sulla carta.