Tripoli è ostaggio delle milizie, non governata da istituzioni: gli scontri ricorrenti riflettono un equilibrio instabile fondato sulla forza, non sulla legittimità. Senza un progetto politico condiviso, il caos resta l’unico ordine possibile
Tripoli si è svegliata ancora una volta al suono delle armi. Brevi scontri all’alba tra le Forze di Deterrenza (Rada) e la Brigata 444 hanno riportato la tensione in superficie, dopo giorni di crescente rafforzamento militare lungo le linee di contatto tra le aree di influenza dei due gruppi. Le zone di Ain Zara, Jazirat al-Fernaj e Wadi al-Rabi’ hanno visto movimenti armati, con veicoli militari nelle strade e uomini in abiti civili al fianco delle forze ufficiali. Anche il centro città è stato interessato da scontri, con l’Unità di Repressione del terrorismo che ha preso temporaneamente il controllo di alcuni nodi chiave a scapito dell’Unità di Sicurezza Generale.
Il cessate il fuoco è arrivato dopo alcune ore, negoziato dalla cosiddetta Forza di Interposizione, che si è poi dispiegata nei principali snodi urbani. Ma il senso di precarietà resta. I residenti parlano di calma relativa, e le autorità si affrettano a descrivere ogni ritorno all’ordine come un successo. In realtà, come sottolinea l’analista Ahmed Zaher, “Tripoli non è governata dalle istituzioni, ma dalle armi”.
Gli scontri non sono più eccezioni, ma tappe ricorrenti in un ciclo consolidato. Non si tratta di tentativi di rovesciare il governo, ma di riaffermare influenza, ridefinire il controllo territoriale, o ottenere vantaggi politici, economici o militari. Le milizie non solo controllano i quartieri, ma anche infrastrutture critiche, accessi urbani, banche, porti e ministeri. Ogni apparente tregua è in realtà una sospensione tattica della violenza, mai una vera soluzione.
Il governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dabaibah, formalmente riconosciuto a livello internazionale, appare sempre più come una delle parti in causa, non come un arbitro. Il Ministero dell’Interno ha confermato il proprio intervento per “risolvere il conflitto”, ma è evidente che il potere effettivo è frammentato tra i gruppi armati. La capitale è trattata come un territorio da spartire, non come un bene comune da amministrare.
Zaher riassume con lucidità la radice del problema: “Manca un contratto sociale condiviso. Chi ha la forza detta le regole, non chi ha legittimità”. In assenza di uno Stato in grado di monopolizzare l’uso legittimo della forza, ogni equilibrio è temporaneo.
Nel frattempo, Tripoli continua a funzionare come un sistema parallelo in cui “ogni fragile tregua viene presentata come un successo, e ogni scontro armato viene descritto come una correzione di rotta”. Ma, come osserva Zaher, “il Paese continua a girare in tondo, utilizzando sempre gli stessi strumenti: le armi, le alleanze temporanee e la competizione per il controllo territoriale”.
Il rischio non è solo un nuovo scontro a Tripoli, ma un’escalation più ampia che coinvolga anche le forze della Cirenaica, fedeli al generale Haftar, storicamente pronte a intervenire in caso di destabilizzazione prolungata nella capitale. Un ritorno a scenari già visti tra il 2019 e il 2020, con attori esterni, come la Russia, pronti a giocare un ruolo.
Zaher conclude con un monito netto: “Le soluzioni di sicurezza da sole non sono sufficienti. Finché il principio dominante sarà ‘chi controlla le armi controlla il potere’, la pace duratura resterà lontana”.
La Libia resta quindi intrappolata in una logica di controllo armato e influenza locale, dove ogni tregua è un rinvio del prossimo conflitto. Senza un progetto politico nazionale inclusivo e credibile, la capitale continuerà a essere il simbolo di uno Stato fallito: formalmente unito, ma nella realtà diviso, conteso, vulnerabile.