L’attacco ucraino ai bombardieri strategici russi è stato un duro colpo, simbolico e profondo. Per il generale Camporini occorrono conferme dei dati per comprendere gli effetti reali, ma un elemento è certo: il Cremlino non è in grado di proteggere il proprio territorio
La Russia ha risposto con violenza allo schiaffo subito ieri, lanciando una quantità monstre di droni Shahed contro il territorio ucraino: 472 lanciati durante le prime ore della mattinata (per confronto, il record precedente, toccato la scorsa settimana, era di pochi più di 100). È la reazione all’operazione “Pavutyna” – “ragnatela” in ucraino – che domenica 1º giugno ha segnato una delle offensive più audaci da parte dell’intelligence militare di Kyiv dall’inizio dell’invasione russa — un’operazione storica che sarà studiata nei libri di tattica militare, che ricorda le azioni epiche del Mossad.
Secondo fonti dell’Sbu, l’intelligence militare ucraina, sarebbero 40 i bombardieri strategici russi distrutti nel raid di 117 droni Fpv coordinato contro basi aeree situate in profondità nel territorio della Federazione Russa, fino a oltre 4.000 km di distanza dal confine ucraino. Tra gli obiettivi colpiti vi sarebbero le basi di Irkutsk, in Siberia, e quella di Olenya, nella regione artica di Murmansk. Le forze armate ucraine rivendicano la distruzione di velivoli come Tu-95, Tu-22M3 e A-50, pilastri delle capacità strategiche russe.
Le informazioni, comprese quelle secondo cui circa il 34% delle capacità di azione missilistica russa sarebbe stata rovinata dall’attacco ucraino contro i bombardieri, non sono verificabili. Resta che l’operazione pianificata da Kyiv, per oltre un anno, è stata condotta attraverso l’introduzione di quei droni esplosivi in Russia, probabilmente nascosti in tir — questo ha permesso di superare i limiti di portata dei velivoli. Colpo durissimo alla generale sicurezza territoriale di Mosca, che porta dentro alla Federazione Russa gli effetti di una guerra che Vladimir Putin ha per lungo tempo minimizzato come “operazione militare speciale” anche per non sensibilizzare troppo le opinioni pubbliche.
L’attacco sì è distinto anche per le modalità tecnologiche adottate, che hanno unito semplicità ed efficacia. Con ogni probabilità ha impiegato una rete mobile 4G/Lte per il controllo remoto dei droni, dimostrando che non sono necessarie soluzioni altamente sofisticate per ottenere risultati strategici. I droni utilizzati sarebbero stati dotati di modem Lte, in sostituzione dei più costosi e tracciabili terminali di Starlink, e controllati attraverso software come Ardurpilpy, già impiegato in modelli noti come i cosiddetti “Baba Yaga”. Più che una svolta sul piano tecnologico, l’attacco rappresenta dunque un caso di pianificazione logistica avanzata e di sfruttamento delle vulnerabilità del dispositivo di sicurezza russo.
Qui sta il punto centrale dell’analisi tecnica dell’accaduto. Per il generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato maggiore della Difesa, l’attendibilità dei dati ucraini va trattata con estrema prudenza, anche se “conferme ufficiali russe sull’entità del danno non arriveranno mai” — per ora Mosca ha effettivamente ammesso che cinque basi sono state colpite e alcuni aerei hanno “preso fuoco”, ma gli incendi sono stati spenti rapidamente e nessuno del personale è stato colpito, come conferma l’ambasciata russa in Italia. Tuttavia, aggiunge, “immagini satellitari con definizione sub-metrica e informazioni da intelligence occidentali sono possibili, potranno offrire conferme, che magari vedremo in via ufficiosa sui media nei prossimi giorni”.
Stando alle informazioni disponibili, Camporini sottolinea la valenza strategica potenziale dell’attacco. “Certo è che se i numeri fossero reali, le capacità della triade nucleare russa sarebbero ridotte a una diade”. In effetti, i bombardieri strategici rappresentano il terzo pilastro, accanto ai missili balistici intercontinentali (Icbm) e ai sottomarini lanciamissili. Colpirli non equivale a disarmare la Russia dal punto di vista nucleare, ma è un duro colpo. Parliamo di “Pearl Harbor russa”, ma pensiamo anche a ciò che ne consegue? Camporini ricorda che non è mai possibile prevedere la risposta: “La rabbia produce reazioni imprevedibili”, ma “dal punto di vista logico non c’è nessun nesso tra quanto accaduto ai bombardieri e un attacco atomico: quando si usa l’arma nucleare si vuole annichilire l’avversario, lasciando il suo territorio una landa desolata che non avrebbe senso voler conquistare”.
Al di là delle verifiche sui danni e delle previsioni sulla reazione, ciò che conta di più è il segnale simbolico e sistemico: “La cosa più importante è la dimostrazione del buco clamoroso da parte della Russia nel controllo del proprio territorio. Se avremo conferme del danno di cui si parla e delle dinamiche usate per produrlo, abbiamo la dimostrazione palmare che la sicurezza russa è altamente e profondamente penetrabile, che il Cremlino non è in grado di proteggersi”.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commentato su X che i servizi ucraini hanno lavorato per mesi in Russia “sotto al naso dell’Fsb”, l’intelligence interna di Mosca. Una falla strutturale, più che un semplice incidente. In uno scenario in cui Mosca cerca di mostrare forza e ineluttabilità, la dimostrazione che basi strategiche possono essere colpite dall’interno – con logistica ucraina sul suolo russo – rappresenta un colpo alla narrazione di inviolabilità della potenza russa. Tutto mentre a Istanbul le delegazioni ucraine e russe si incontrano (sotto egida turca e americana, entrambi non avvisati da Kyiv prima del raid di ieri), con scarse aspettative di progressi reali.
L’operazione “Pavutyna” sembra rafforzare la convinzione che la pressione militare – anche ben oltre il campo di battaglia – sia una leva imprescindibile in un contesto negoziale ancora fortemente sbilanciato. Il segretario di Stato statunitense, Marco Rubio, e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, si sono parlati in queste ore ribadendo la volontà dell’amministrazione Trump di procedere con i negoziati.