“L’amico fedele” (“The Friend”, 2024), di Scott McGehee e David Siegel, racconta una delicata storia di un cane orfano che guarisce chi soffre. È indubbiamente un film “carino”, “delicato”, perfino “lirico”, dai dialoghi brillanti cuciti, purtroppo, dentro un relativismo esistenziale. Ma ci basta un cane per vivere felici? La recensione di Eusebio Ciccotti
Dopo il caso (vero) del cane cui muore il padrone e si reca alla stazione della metro per diversi anni ad aspettarlo come usava (Hachiko-Il tuo migliore amico, 2009, Lasse Halloström), ecco un altro caso (verosimile) di cane fedele, orfano: L’amico fedele (The Friend, 2024) di Scott McHehee e David Siegel.
Il noto scrittore newyorkese Walter (Bill Mattay, incolore), dopo aver deciso di andarsene nel mondo dei sogni (suicidio), nel testamento lascia Apollo (un imponente alano alto come un puledro), a Irin (Naomi Watts: mai sopra le righe, lirica), una sua ex allieva, anche lei scrittrice, nonché docente di scrittura, sua ex amante (seppur per una notte).
Apollo, davvero bello, è triste, non mangia da giorni, e tiene sempre tra i denti o sotto il muso, quando si allunga, una maglietta sgualcita del suo padrone: se si prova a togliergliela ringhia minaccioso.
Per far in modo che lo spettatore non si sdrai sulla poltrona come il disubbidiente Apollo sul letto ad una piazza e mezza del bilocale (condominiale) di Irin, costringendola a dormire sul pavimento, il plot lo fa partecipe degli antefatti.
Ecco due rare pennellate di come Walter, facendo jogging, un mattino, nella New York intellettuale dalle parti di Brooklyn Bridge Park, con un magnifico cielo blu, incontri, sembra una fiaba di Oscar Wilde, immobile, come il cavallo di Troia, piovuto dal nulla, senza collare, il troneggiante alano (ripreso in campo medio dal basso, statuario).
Cui segue il racconto della sua sferragliante vita sentimentale (tre ex-mogli e diverse ex-amanti) e professionale (scrittore, docente universitario di scrittura: ma poi, costretto al pensionamento anticipato per via della sua eccessiva estroversione nei riguardi delle allieve).
Bio sintetizzata dalle sue ex donne e da una figlia, tra un cocktail e un thè, rigorosamente bevuti tra piccoli gruppi di intellettuali. Insomma, una vita, quella di Walter, piena di luccicamenti, poi passata, improvvisamente, in secondo piano dal giorno in cui trovò Apollo.
Iris dovrà affrontare problemi con il condominio, il cui regolamento vieta la residenza ai cani, sino a rischiare lo sfratto.
Ma, grazie a un legge che non conosce, il diritto al supporto psicologico di un animale, certificato da uno “strizzacervelli” (= psicanalista: questo il termine scelto dai traduttori sin dai primi film doppiati di Woddy Allen), qualora si attraversi un periodo di forte depressione, il cane può abitare insieme al suo padrone.
Improvvisamente scopriamo che Apollo simboleggia non solo l’incapacità di un uomo di amare una donna, ma è anche la metafora di un recupero sentimentale per Iris sul piano psicologico.
La fedele ex-assistente ha sempre amato inconsciamente il grande scrittore, sentimento acceso da quella lontana notte di sesso, sonnecchiante sotto la cenere del tempo: Walter scegliendo Iris come “curatrice” di Apollo, è come se le avesse chiesto di prendersi cura di quella parte di sé cui egli teneva di più. Ed Iris per Walter diviene, post mortem, l’unica che egli avrebbe amato…se fosse stato fedele. Come sa esserlo un cane.
L’amico fedele (The Friend), tratto da un fortunato romanzo di Sigrid Nunez (2018, in Italia per i tipi di Garzanti, tradotto elegantemente da Stefano Beretta, 2019), con McGehee e Siegel anche sceneggiatori, è indubbiamente un film “carino”, “delicato”, perfino “lirico”, dai dialoghi brillanti cuciti, purtroppo, dentro un relativismo esistenziale.
Una weltanschauung hollywoodiana in cui i temi forti della filosofia (da Kerkegaard a Thibon, a Ricœr), come quelli dell’uomo solo, della famiglia, dell’amore per gli animali nobile surrogato dell’amore tra uomini, del suicidio way out indolore e rapida, appaiono sbiaditi, miscelati troppo freddamente in soluzioni da laboratorio, lontani dalla vita reale, dal dolore autentico, seppur sul piano della finzione inanellati in recitazione e montaggio catturanti.
I vividi toni di una attenta fotografica (Giles Nuttgens), in cui prevale l’azzurro intenso dell’autunno di New York, amato da Walter mentre corre al mattino, sono un legittimo rispetto per il colore della vita da parete di McGehee e Siegel, che potremmo rendere con questo interrogativo: “Sarebbe pensabile che qualcuno vedesse tutto nero ciò che noi vediamo bianco, e viceversa?” (Wittegenstein).