La competizione tra grandi potenze non può più essere letta con la tradizionale dicotomia tra soft e hard power. L’attrazione dei talenti globali è una leva strategica per gli Usa. Il rischio? Un declino scientifico che potrebbe favorire il modello autoritario cinese. L’Europa reagisce, ma l’Italia dovrebbe porre il tema con urgenza anche in ambito Nato. Il commento di Marco Mayer
Nell’attuale fase della politica internazionale, sarebbe opportuno usare con grande cautela la tradizionale distinzione tra soft power e hard power nell’analizzare la competizione strategica tra grandi potenze. La capacità di attrarre in modo costante e duraturo i migliori talenti da tutto il mondo rappresenta una delle manifestazioni più significative del soft power, ed è al contempo una condizione cruciale per mantenere la primacy anche nella sfera dell’hard power.
La velocità esponenziale della rivoluzione tecnologica rende infatti imprescindibile attingere alle energie più creative a livello internazionale. Senza questo apporto diventa impossibile affrontare – e tanto meno vincere – le grandi sfide sul piano strategico e militare. La stretta connessione tra dimensione soft e hard del potere globale è spesso trascurata dagli studiosi di relazioni internazionali. Ma ciò che sorprende è che questa consapevolezza manchi anche in una parte rilevante della politica statunitense – in particolare nel Partito Repubblicano. L’attacco ad Harvard ne è solo la punta dell’iceberg.
Le posizioni assunte negli ultimi mesi nei confronti di docenti, ricercatori e studenti stranieri rischiano di andare in contrasto con gli interessi nazionali degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Senza un’inversione di rotta, il declino – non solo scientifico – degli Stati Uniti diventerà inevitabile. Scienziati e ricercatori scelgono volentieri di studiare e insegnare in società aperte, dove possano agire e vivere in libertà. Basti pensare alla fuga di cervelli da Hong Kong in seguito alla stretta repressiva imposta nel 2020 da Pechino, in violazione degli accordi con il Regno Unito per la transizione del 1997.
Nelle ultime settimane, alcuni alleati e partner degli Stati Uniti stanno cercando di approfittare della miopia della Casa Bianca per attrarre nelle loro università i migliori studiosi internazionali. In questo contesto, l’Unione europea ha stanziato – su proposta della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – 500 milioni di euro. Una reazione tattica comprensibile. Ma la questione è più ampia: in vista dell’imminente vertice Nato, l’Italia dovrebbe porre con forza il tema direttamente al presidente Donald Trump e al vicepresidente JD Vance.
Un brusco declino dell’egemonia scientifica americana rischia infatti di rafforzare il totalitarismo cinese e di compromettere il futuro delle democrazie, in Occidente come in Asia e in Africa.